Il romanzo della Nazione
M. Maggiani, Feltrinelli, 2015, 297 pagg.
La recensione del Centro Berne
Conosco Maurizio Maggiani da molti anni, da quando ho letto il suo primo capolavoro “Il coraggio del pettirosso” un libro che è riuscito nell’anno della sua pubblicazione (1995) a vincere insieme i premi Viareggio Repaci e Campiello, un’evento rarissimo, che dimostra, per una volta, che ci può essere unanimità di consensi anche da parte dei critici quando un’opera è veramente d’eccellenza.
Successivamente ho letto altri libri suoi (mi erano piaciuti particolarmente i racconti di “È stata una vertigine”) perché io sono uno che si affeziona agli autori, ma mai fino ad ora avevo trovato modo di entusiasmarmi ancora. Poi mi sono messo a leggere altro e mi sono dimenticato di lui.
Fino a ora.
È successo che invece, il mese scorso, appena uscito il “Romanzo di una nazione” me lo sono come ritrovato fra le mani un giorno alla Feltrinelli, guardavo incuriosito la meccanica della bicicletta nella copertina, una specie di tandem laterale, un miracolo della meccanica credo, che fra l’altro consente baci profondi e “francesi” impossibili nei tandem tradizionali che al massimo concedono casti baci sulla nuca.
Era ora evidentemente che tornassi a leggere Maggiani.
Lo segnalo per molti motivi, non certo per la copertina, ma prima di tutto perché a suo modo è un libro “analitico” . È un libro che analizza il Copione della nostra Nazione nel suo farsi ottocentesco e novecentesco attraverso le storie di gente comune e poco famosa, ma che potremmo chiamare dei “facitori”. Maggiani parla della sua famiglia per lo più e la racconta vagolando fra i rami della parentela con quella sua aria dinoccolata e meditabonda, erratica e sconclusionata, apparentemente casuale, che lui stesso ha quando lo vedi e lo senti parlare. Ci vede poco con gli occhi, in realtà, ma sa sempre dove andare a parare col cuore e la mente.
Sarà che io sono particolarmente sensibile alle storie dei genitori riscoperte dai figli, sarà che considero terminato un buon percorso di crescita solo quando non solo si fa pace col proprio passato, ma addirittura lo si ama; sarà che credo che tutti noi ci valorizziamo solo se riusciamo a sentirci parte dell’evoluzione della nostra comunità di cui proseguiamo il cammino; ma quando man mano leggendo mi sono ritrovato a pensare a quanta meravigliosa e pazza gente devo gratitudine per essermi ritrovato a vivere dove sto, ho concluso che questo è proprio una grande libro.
Non è certo detto che piaccia subito a tutti, perché, come dicevo, lo stile è un po’ inconsueto e la trama, in un certo senso, inesistente, ma invito a lasciarsi andare nella lettura come si entrasse in un sogno che se anche sappiamo bene essere strano e sconclusionato ci offre sempre squarci di verità poetici e nutrienti.
Da un altro punto di vista è anche un libro di storia, o meglio di storie che diventano Storia, storie materiali, anche mirabolanti e misteriose, storie comuni che comuni non sono per nulla, storie di povera gente che povera non è perché negli anni in cui proprio la nostra Nazione loro la stavano facendo avevano una ricchezza inestimabile che oggi molti hanno perso: il senso (cioè la direzione) e il significato (cioè il valore) da dare alla propria vita. In quei tempi c’era da uscire dalla miseria e fare qualcosa di concreto, con le mani, la volontà e …. l’utopia: “Come facessero non lo so, ma era tutta gente che sognava mentre lavorava, e quello che avrebbero fatto con il loro lavoro era la loro utopia”.
Alla fine mi è venuta spontanea la domanda: “è adesso noi che facciamo? Che stiamo costruendo? In cosa crediamo? Quale può essere la nostra utopia?”
G.P.