
La recensione di Berne Counseling
Questo film ha una trama centrale molto interessante sul tema della motivazione al lavoro, e lo si può vedere anche così, ma pian piano ci si accorge che è quasi una scusa per parlare anche di molto altro: di distacchi, di scelte di vita, d’amore filiale, di coraggio, di conformismo e di morte.
Il protagonista, licenziato dal lavoro, inizia un percorso a ritroso nel tempo e nei luoghi – dapprima costretto dalle circostanze e poi in modo sempre più determinato – per cercare le radici della sua esistenza.
C’è un padre che gli ha insegnato l’amore per la musica, ma che poi se ne è andato misteriosamente lasciando la mamma sola, c’e un secondo padre da cui imparare un lavoro da tutti negletto e schifato, ma che diventa sorprendentemente una redenzione, una rinascita, una ragione di vita e alla fine un atto di compassione e di riconciliazione.
Una storia molto istruttiva per dire, come minimo, che qualsiasi lavoro può essere straordinario se non lo si subisce, se non resta un oggetto esterno, ma al contrario ci si mette dentro la propria vita e la propria voglia di lasciare un segno del proprio passaggio sulla terra.
Il giovane guarda il suo maestro operare in questo suo strano e a volte ripugnante lavoro e dopo un inizio disastroso comincia non solo a capire come fare ma soprattutto a farne un’opera per cui vale la pena vivere. Quei gesti rituali, perfetti, silenziosi, rispettosi, quasi in adorazione di quei corpi morti, diventano, tramite il suo lavoro accurato e lento, una riconciliazione dei sopravvissuti con la persona deceduta.
Ed è lui stesso spesso a insegnare la pace, a portare raccoglimento e compassione a parenti talvolta rancorosi o distratti, senza mai spiegare, senza nessun invito moralista, basta il suo atteggiamento rispettoso a fare di ogni cerimonia un atto d’amore.
Sarà disposto a tutto, una volta scoperta la bellezza di questa sua nuova imprevedibile vita, perfino a farsi lasciare da una moglie incredula e indispettita, perfino ad accettare le critiche dei conformisti del suo paese, che saputo del suo lavoro subito gli si allontanano malevoli.
Lo spettatore invece diventa complice di questa trasformazione, lentamente impara cos’è quest’arte antica, questo rito di addio in cui i corpi sono resi vividi e riportati a una bellezza che talvolta l’agonia o la vecchiaia ha deturpato.
E poi questo film è anche un cambiamento di Copione, questo ragazzo, mediocre musicista, diventa ben presto per molte famiglie un “traghettatore” che riesce a far riconciliare i vivi con i morti.
La sua attenzione, la sua calma, la sua meticolosità, la sua cura per le persone è tale da infondere anche ai familiari più scorbutici un sentimento di ieratica spiritualità, nessuno può resistere a una tale composta onoranza, per nulla funebre, per nulla funerea.
E’ un cambiamento di Copione anche perché il giovane cambia il suo rapporto con il padre, comincia a smettere di odiarlo trovando dei vecchi dischi in casa che la madre aveva tenuto anche dopo la separazione. Non era dunque così odiato da sua madre.
E poi non è forse proprio da lui ad aver preso l’amore per la musica?
Pian piano il giovane squarcia il velo di ostilità con cui aveva interpretato il suo passato, non sarà facile, ma poi anche per lui l’epilogo sarà finalmente una riconciliazione.
Come sempre è difficile per i figli mantenere l’ostilità verso i genitori.
Come sempre dopo aver letto il proprio passato con gli occhi di un bambino deluso, ecco che la maturità obbliga a sguardi più ampi, più Adulti, più capaci di comprensione.
Del resto che ne può sapere un bambino di un padre che se ne va.
Così l’incontro con il padre tanto esecrato sarà per lui stesso un rito di “affiliazione”, di riavvicinamento che, nel momento più solenne, ne onorerà la vita.
È come se non vi fosse possibilità di vita felice senza una relazione affettuosa con i propri genitori. Finché c’è astio o rancore è come se una parte di noi si ribellasse a ciò che per tanto tempo abbiamo introiettato amorosamente prima della “grande delusione”: un padre o una madre, dapprima amati, di cui poi, certo, non possiamo sopportare l’abbandono.
Un bambino ferito quasi sempre si difende con un’affermazione definitiva “mai mi hai amato e mai ti amerò”.
Ma così è come se si portasse dentro un “peccato d’origine”, una tara ereditaria fatta di cattiveria o follia, di noncuranza o di disumanità. E soprattutto un’incapacità a perdonare.
Il giovane protagonista di questo film vive tutto questo, ma impara sulla sua pelle cos’è il conformismo, cosa sono i giudizi superficiali, quanto poco conta la vita passata di fronte alla morte, quanto poco contano dissidi e diversità davanti alla perdita definitiva di una persona che, anche se forse per poco, ti è stata cara.
E poi, in questo film, c’è la scoperta della poesia della vita, quando questo accade qualsiasi gesto, qualsiasi movimento diventa unico e vissuto pienamente, perché la poesia è nella vita stessa e ogni lavoro, ogni azione diventa unica e irripetibile, epica e degna.
Se pensiamo a un gruppo di terapia o di autoaiuto che funziona bene, in cui c’è accoglienza, delicatezza, intimità, apertura, pluralità di visione, è l’ambiente umano il messaggio in sé, poi ciascuno avrà i suoi obiettivi, ma è il “modo” il vero cambiamento. Intensità, cura, essenzialità, lentezza sono già il cambiamento che mette al centro l’uomo e il suo sentire.
Accostiamo sempre la morte e il dolore, come se la sofferenza fosse l’unica emozione possibile, come se ce ne dovessimo liberare al più presto possibile e pensare ad altro.
Ecco questo film ci aiuta a vedere qualcosa di diverso.
La morte come momento topico del nostro amore per chi non ci sarà più nella nostra vita, un momento in cui esprimere la gratitudine per quello che quella persona ci ha dato, la felicità anche, e non sembri paradossale, per il tempo vissuto insieme con gioia.
La morte come cerimonia per un mondo che finisce, dove tutti coloro che hanno convissuto si possono unire e tenere per mano per accogliere la grande verità della propria mortalità e riflettervi finalmente senza pudore.
Non una festa certo, ma un’intensa e profonda consapevolezza collettiva sì.
Un momento di vicinanza, di commozione, di condivisione della nostra natura umana.
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