Emozioni e cambiamenti sociali
Una chiave di lettura tra Berne e Bauman
di Francesco Aprile
articolo pubblicato su
“Neopsiche – Rivista di Analisi Transazionale e scienze umane” 6/2009
Riassunto: In questo articolo l’autore evidenzia come sia cambiata l’espressione delle emozioni
sociali primarie (tristezza, paura, rabbia, gioia) al variare dei cambiamenti storici, interpretati a
partire dal concetto di comunità espresso da Bauman. Parallelamente alla scomparsa di tale
comunità, tristezza e gioia sembrano essere sempre più destinate a diventare emozioni private,
mentre paura e rabbia si prestano ad un livello maggiore di manipolazione. In particolare, per queste
due emozioni viene ipotizzata la presenza di un parassitismo emotivo a livello sociale secondo la
formulazione propria analitico-transazionale.
Una delle cose più interessanti dell’Analisi Transazionale è la sua capacità di fornire delle chiavi di
lettura della persona la cui efficacia non si limita al singolo individuo o alle relazioni corte, ma può
tranquillamente essere estesa ai gruppi o all’intero corpo sociale. Ad esempio, è possibile
individuare gli Stati dell’Io prevalenti di un gruppo anziché di una persona, oppure individuare delle
tracce copionali nella storia culturale di un popolo. Ho voluto così pormi l’obiettivo di guardare al
tema delle emozioni (molto caro all’AT ben prima della emotional renaissance degli ultimi quindici
anni) da un punto di vista al tempo stesso transazionale e sociale. Ho voluto indagare come le
emozioni principali (rabbia, tristezza, paura, gioia) vengono vissute oggi nel nostro mondo
occidentale e, in particolare, mi sono chiesto se tali emozioni abbiano subito dei cambiamenti nel
tempo.
Dando inizio alla ricerca, mi è sembrato evidente da un punto di vista empirico che le emozioni
sociali hanno ovviamente cambiato forma, oggetto e modalità espressiva. Se nel medioevo, ad
esempio, si aveva paura delle epidemie di peste, oggi ci sentiamo molto al sicuro su questo fronte
grazie al progresso tecnologico in ambito sanitario, mentre sperimentiamo altre forme di paura
legate al minaccioso anonimato metropolitano. Oppure è facile notare le differenze
fenomenologiche tra una festa popolare degli anni Cinquanta ed un concerto tenuto oggi da qualche
grande cantante capace di riscaldare platee immense in un’unico ritmo collettivo.
Ma quando è iniziato tale cambiamento? Dove è il discrimine? C’è una radice unica? Quale è la
chiave di lettura capace di spiegare la differenza tra le emozioni sociali di ieri e le emozioni sociali
di oggi?
Tra “Ieri” ed “Oggi”: la notte della comunità
Ho trovato la chiave di lettura più utile per rispondere a queste domande nel concetto di “scomparsa
della comunità” espresso da Bauman (1). Secondo Bauman, la storia della società occidentale
(diventata de facto un trend mondiale attraverso i processi di globalizzazione – o di
“occidentalizzazione del mondo” per dirla con Latouche) è riconducibile ad un paradigma che ruota
attorno al concetto di comunità e alla sua scomparsa. Ma cosa intendiamo per comunità?
Prima di ricorrere alla descrizione idealtipica di Bauman, può essere utile richiamare alla nostra
mente alcuni esempi. Le forme di aggregazione sociale di tipo rurale, i clan, il villaggio, le tribù,
sono sicuramente esempi reali di comunità storicamente esistite o ancora esistenti (sebbene
soffocate dai fenomeni di omologazione della nostra era liquida). Attualmente, dal punto di vista
temporale e geografico, gli esempi di comunità più vicini alla nostra esperienza di italiani del XXI
secolo potrebbero essere individuati nelle comunità rurali o montane della provincia italiana (da
nord a sud), in misura maggiore via via che ci si allontana dai grossi centri urbani e dalle metropoli.
Dal punto di vista fenomenologico, la comunità si presenta come «un’entità peculiare rispetto ad
altre forme di aggregazione umana (appare cioè chiaro “dove inizia e dove finisce”), piccola (tanto
piccola da poter essere vista in tutta la sua interezza da tutti i suoi membri) e autosufficiente (capace
cioè, afferma Redfield, di provvedere a tutte o quasi tutte le attività e necessità dei suoi membri. La
piccola comunità è un tipo di organizzazione ‘dalla culla alla bara’)»(2). Questa dimensione
contenuta, questo tipo di relazioni strette, questo senso di identità collettiva, fanno della comunità
«un luogo “caldo”, un posto intimo e confortevole. È come un tetto sotto cui ci ripariamo quando si
scatena un temporale, un fuoco dinanzi al quale ci scaldiamo nelle giornate fredde. […] All’interno
di una comunità la comprensione reciproca è garantita, possiamo fidarci di ciò che sentiamo, siamo
quasi sempre al sicuro […] In secondo luogo, in una comunità possiamo contare sulla benevolenza
di tutti. […] Nei momenti di tristezza ci sarà sempre qualcuno pronto a tenerci per mano; […]
aiutarci reciprocamente è un nostro puro e semplice dovere, così come è un nostro puro e semplice
diritto aspettarci che l’aiuto richiesto non mancherà»(3).
Per quanto tale descrizione possa farci vagheggiare un mondo perfetto, un miltoniano paradiso
perduto, dobbiamo vedere anche l’altro lato della medaglia. «Il privilegio di “vivere in una
comunità” richiede un prezzo da pagare […]. La valuta con cui si paga tale prezzo è la libertà»(4).
Nella comunità, infatti, l’identità collettiva (e quindi i bisogni collettivi) hanno sempre la
precedenza su quelli del singolo, la ribellione non è ammessa e i bisogni sono soddisfatti in cambio
della cessione della propria libertà personale. Qualcosa che per noi occidentali è attualmente
inconcepibile, in quanto ormai culturalmente legati all’irrinunciabilità dei diritti del singolo.
Abbiamo scelto la libertà alla sicurezza della comunità, sebbene ora tale situazione ci faccia
rimpiangere spesso le cipolle d’Egitto. Lungi, quindi, dal voler vagheggiare un acritico ritorno a ciò
che abbiamo storicamente rifiutato, ci poniamo l’obiettivo di capire quali siano le conseguenze di
questo passaggio.
Ma non abbiamo ancora espresso la risposta alla domanda fondamentale: che fine ha fatto la
comunità?
Secondo Bauman, la comunità è ormai sconfitta, i suoi ultimi baluardi non tarderanno ad arrendersi
e «scomparsa è la gran parte dei solidi e fermi punti di orientamento che indicavano un ambiente
sociale più stabile, più sicuro e più affidabile della durata di una singola vita. […] Questa esperienza
oggi viene a mancare, ed è la sua assenza che viene interpretata come “declino”, “scomparsa” o
“eclissi” della comunità, come osservava già nel 1960 Maurice Stein: i legami comunitari diventano
sempre meno indispensabili […]. Le fedeltà personali perdono di intensità di pari passo al
progressivo indebolimento di legami nazionali, regionali, comunitari, di vicinato, familiari e alla
fine di legami a un’immagine coerente di se stessi»(5).
Dal punto di vista storico, il fatto nuovo che rompe la comunità è da rintracciarsi principalmente
nella rivoluzione industriale, che ha generato (o quantomeno accelerato) la frantumazione delle
comunità rurali (in quanto strutturalmente incompatibili con la necessità di fornire al sistema
industriale manodopera massificata e de-identificata). Nel caso della realtà italiana, a mio avviso,
occorre fare una distinzione e rintracciare tale punto di rottura nel ventennio successivo alla
Seconda Guerra Mondiale, con il boom economico, l’industrializzazione, i flussi migratori interni
dal sud rurale al nord neo-industrializzato, la diffusione di una identità nazionale attraverso il mezzo
televisivo (non deve meravigliare che si possa applicare la stessa decodifica a elementi così distanti
nel tempo, in quanto stiamo parlando di macro-tendenze storiche, non di eventi puntuali).
A questo punto mi sembra che si possa parlare semplicemente di un “ieri” e di un “oggi” facendo
coincidere il primo termine con il tempo della comunità e il secondo con la sua scomparsa. È
evidente quindi, che intendiamo questi termini in senso logico più che cronologico.
Partendo da questa distinzione sembra possibile individuare degli evidenti cambiamenti nel modo di
vivere le emozioni, nelle loro cause scatenanti, nella loro manifestazione. Vediamoli.
Tristezza e gioia: emozioni in solitudine
Ieri, al tempo della comunità, i legami sociali erano così forti che diventava quasi impossibile
pensare ad una tristezza o ad una gioia “private” Si pensi, ad esempio, ai riti funebri. Nella
comunità, il lutto che colpisce un suo membro è il lutto di tutto il gruppo sociale, che si ritrova a
piangere e a sostenere i familiari (anche nelle necessità materiali). E lo stesso livello di
coinvolgimento collettivo emerge con forza nelle occasioni di gioia. Nella comunità, ad esempio, è
impensabile un matrimonio o una festa “per pochi intimi”, ma la riuscita di una festa viene
giudicata dal numero dei suoi partecipanti e dal coinvolgimento che ha saputo suscitare. Per non
parlare delle feste comunitarie per eccellenza, a carattere naturalistico (il cambio delle stagioni, il
ciclo semina/raccolto) e/o religioso (ad esempio le feste patronali che ancora oggi si possono
osservare in alcuni paesi, tipicamente nel Sud Italia), in cui c’è una partecipazione (ed una
preparazione) a qualcosa che stabilisce un idem sentire a livello di corpo sociale e che è difficile da
comprendere per chi non lo abbia sperimentato seppure in minima parte.
Tutto ciò stride fortemente con il nostro oggi, segnato dalla frammentazione sociale. Ci siamo
ripresi il “diritto” a vivere una sorta di privacy emozionale, con la conseguenza che la gioia non ha
possibilità di essere amplificata (o riverberata) attraverso dinamiche collettive. Ma, soprattutto,
restiamo soli con la nostra tristezza e molte persone che si rivolgono ad un percorso di counseling o
di terapia lo fanno perché non riescono a metabolizzare da sole un tale peso emotivo.
Ciò vuol dire che non abbiamo più occasioni per gioire insieme? O per piangere insieme? Se così
fosse, come spiegare il carosello di auto strombazzanti alla vittoria dei mondiali di calcio tra
persone sconosciute (o talvolta nemiche) che si abbracciano e fanno festa per un’intera notte?
Oppure come non vedere una sorta di tristezza sociale tangibile quando gravi casi di cronaca
generano un dolore diffuso e condiviso, tanto dalle persone più vicine quanto da chi è lontano ma
ugualmente vicino grazie ai mass media? In casi del genere sembrerebbe che si è riusciti a trovare
una dimensione comunitaria alle emozioni anche nell’oggi della frammentazione.
Secondo Bauman, bisogna stare attenti a non fare confusione, in quanto in casi simili non ci
troviamo davanti ad una comunità vera e propria, ma ad un suo surrogato che, con una terminologia
di origine kantiana, egli definisce comunità estetica. Tale comunità si costruisce senza radici attorno
ad un idolo o ad un evento «occasionale o ricorrente, come un concerto di musica pop, un incontro
di calcio o una mostra particolarmente attesa». Perché si tratta di un surrogato di comunità? Perché
tali episodi o idoli «evocano l’esperienza della comunità senza che esista alcuna comunità reale, la
gioia del senso di appartenenza senza lo sconforto dei ceppi. [Tali comunità] sono comunità
prefabbricate, da consumarsi sul posto, nonché del tipo usa-e-getta. […] Non richiedono una lunga
storia di lenta e faticosa costruzione né di sforzi laboriosi per garantirsi il futuro» (6). La comunità
vera e propria ha un senso di solidità temporale, di trascendenza rispetto al momento presente e alla
vita del singolo, mentre le emozioni legate ad “eventi”, per quanto intense, restano episodi
estemporanei, destinati ad essere superati dalla prossima ondata.
Insomma, tramontata l’epoca della comunità, viviamo tristezze solitarie e gioie private. La tristezza,
venendo a mancare l’effetto metabolizzatore della compagnia umana, rischia di non essere mai
veramente superata. Invece, se è vero che la gioia “è il sensore di ciò che fa bene al genere umano e
che vale la pena di ripetere e frequentare il più possibile” e che “la gioia è il bello e il buono del
vivere umano” (7), dobbiamo concludere che le nostre vite senza comunità sperimentano solo un
briciolo del potenziale di felicità che alberga nell’animo umano.
La comparsa della rabbia
Se tristezza e gioia trovano nella comunità un sostegno e un’amplificatore, non si può dire la stessa
cosa per la rabbia. Di per sé, la rabbia «è la nostra reazione automatica all’intrusione, alla
sopraffazione, al tentativo di nuocerci in qualche modo ed è collegata ad atteggiamenti aggressivi,
di sfida e violenza in genere pari a quella subita» (8) oppure è una reazione di pancia a qualcosa che
non è accettabile rispetto ad un nostro criterio di dover essere. Nel primo caso, occorre avere in
mente un’idea di bene, di spazio, di luogo da difendere e poi sentirlo minacciato, altrimenti non ci si
arrabbia. E siccome ieri, il bene del singolo coincideva con la comunità stessa, unico e vero bene, la
rabbia aveva ragion d’essere soprattutto ad extra, verso i non appartenenti ad essa, nel momento in
cui si presentavano come minaccia. Nel secondo caso, la rabbia era la risposta della stessa comunità
a eventuali comportamenti devianti del singolo e si concretizzava in forme più o meno cruenti (dal
semplice allontanamento, passando per diversi tipi di punizione fino alla morte).
Ad un livello più profondo, va inoltre fatto notare come la rabbia sia un’emozione legata ai processi
di individuazione e nella comunità, che vive di fusionalità, questo non può essere permesso. La
rabbia, quindi può essere agita sul piano interpersonale dentro la comunità nelle forme e nei riti che
essa stessa prevede, oppure può essere agita dalla comunità contro un membro deviante o una
minaccia esterna, ma mai a livello sociale contro la comunità.
Il passaggio alla modernità, invece, è avvenuto proprio attraverso episodi di rabbia sociale interni
alla comunità (ribellioni, proteste, rivoluzioni,…) diretti a cambiarne gli equilibri, agiti per la difesa
dell’identità e dei diritti di gruppi sociali più deboli. È stato un lungo percorso plurisecolare che in
Occidente ha portato il duplice risultato dell’emancipazione sociale e della morte della comunità.
Il nostro oggi, quindi, è necessariamente segnato dalla rabbia. Dobbiamo “solo” decidere come
gestirla. È necessario pertanto che ci sia un forte Adulto sociale capace di indirizzare in maniera
non-distruttiva le energie che questa emozione solleva, per poterne cogliere il potenziale e
minimizzarne le ricadute negative. Un fatto del genere potrebbe sembrare una “quadratura del
cerchio” destinata ad orizzonti utopici, ma è bene ricordare che il Novecento ha conosciuto alcuni
movimenti di grande protesta e cambiamento sociale, come la lotta per i diritti civili guidata da
Martin Luther King e il movimento indipendentista indiano guidato da Gandhi (ma ce ne sono altri
meno famosi, come il movimento indipendentista non-violento del Kossovo di Ibrahim Rugova),
che sono riusciti in questa impresa ardua. Se questo non dovesse ri-accadere, ci ritroveremmo a
pagare ad un prezzo molto caro i prossimi cambiamenti sociali.
Alla riflessione appena fatta se ne può aggiungere un’altra, frutto del contributo analiticotransazionale
allo studio delle emozioni umane.
L’AT ha introdotto la distinzione tra emozione autentica e parassita. Con il primo termine
intendiamo un’emozione coerente con la situazione vissuta dal soggetto qui-ed-ora e che, gestita in
maniera propria, attiva un percorso di cambiamento. L’emozione parassita, invece, è «un sostituto
di un’altra emozione che nella nostra infanzia fu proibita»(9) e che non genera cambiamento, ma
alimenta situazioni di svilimento umano quali i giochi. Ad esempio, in un contesto familiare che
scoraggia l’espressione della paura in quanto “inappropriata ad un bravo ometto come te”, il
bambino impara a sostituire tale emozione con un’altra accettata dai genitori, come ad esempio la
tristezza o la rabbia. Conoscendo questo tipo di meccanismi e le loro conseguenze deleterie,
l’analista transazionale sta bene attento quando si trova davanti ad un’emozione la cui espressione è
incongrua, sia in eccesso che in difetto, rispetto al qui-ed-ora.
Partendo da queste considerazioni, mi sembra di intravedere a livello sociale una forma di
parassitismo emotivo tra la rabbia e la paura. Come vedremo nel paragrafo successivo, la paura è
infatti, l’emozione dominante nell’attuale contesto sociale, con un livello di espressione
assolutamente al di sopra di una coerenza con i dati di realtà. D’altro canto, diversi osservatori fanno
notare che il livello di rabbia sociale attuale è inferiore a delle logiche aspettative: la disoccupazione
e il precariato che crescono, la ormai cementata sfiducia dei cittadini nei confronti della propria
rappresentanza politica, le notizie conclamate di avvelenamento di intere regioni, gli scandali
finanziari devastanti, la perdita del potere di acquisto di intere fasce sociali, l’esclusione di interi
gruppi sociali dal godimento dei diritti di cittadinanza (per tacere di altri fatti di notevole gravità)
hanno prodotto forme di protesta tutto sommato blande, la cui forza non ha portato a cambiamenti
effettivi dello status quo. In altri momenti storici, fatti del genere hanno dato vita a espressioni di
protesta (scioperi, manifestazioni, contestazioni di vario tipo del potere costituito, ecc.), mentre oggi
gli elementi di malcontento generale non si trasformano in rabbia. Perché? L’applicazione del
concetto di emozione parassita anche a livello sociale potrebbe suggerire che buona parte di questa
rabbia sia stata “proibita” e sostituita dalla paura, che invece è accettata ed alimentata. Per verificare
la plausibilità di quest’ipotesi passiamo allora ad analizzare la nostra ultima (e più caratteristica)
emozione sociale: la paura.
La paura, emozione utile: per chi?
La paura è un’emozione che impone una risposta rapida ad una minaccia della propria persona. Chi
non ha paura, lungi dall’essere più forte degli altri, è più a rischio perché non si protegge, è un
temerario. In un processo psichico “sano”, la persona coglie l’informazione della minaccia (stato
dell’io Bambino), la verifica con dati di realtà (Adulto) e prende le misure protettive del caso
(Genitore e/o Adulto). Se l’Adulto non si attiva, il Bambino non è aiutato a discernere tra minacce
reali o di fantasia ed è destinato a restare perennemente impaurito o a chiedere continui interventi
protettivi di stampo genitoriale, senza che avvenga mai una maturazione della persona.
E a livello sociale? Nel tempo (ieri) della comunità, la rete relazionale “stretta” era una garanzia di
protezione. Si era esposti a terribili minacce (viste come esterne, come fato) quali epidemie,
carestie, guerre,… ma la comunità garantiva sostegno e protezione. E oggi che la comunità non c’è
più? Stando agli storici, ci sono state epoche e regioni in cui il senso di paura generale è stato più
forte che in altre, ma ora ci troviamo davanti ad un paradosso, infatti «la generazione meglio
equipaggiata tecnologicamente di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun
altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza. […] contrariamente all’evidenza, noi, i più
coccolati e viziati, ci sentiamo più esposti alle minacce, più insicuri e spaventati, più inclini al
panico e molto più interessati a tutto ciò che possa essere messo in relazione con la sicurezza e
l’incolumità» (10). Non avremmo, cioè, così tanti motivi obiettivi per essere impauriti, eppure lo
siamo in maniera innegabile e quasi ossessiva.
Cosa è accaduto? Proprio perché si è disgregata la comunità e il suo senso, è accaduto che le
svariate paure specifiche di ieri (della morte, dell’insufficienza alimentare, delle malattie,…) siano
state sostituite da un senso di ansia aspecifico e generalizzato, che Bauman chiama efficacemente
paura liquida. A livello sociale, quindi, c’è una grande richiesta di “sicurezza ed incolumità”, ma
«poiché a innescare tutto il processo è la mancanza di “sicurezza esistenziale”, le preoccupazioni
per l’incolumità non sono la vera causa dei problemi» (11). La società odierna invoca
continuamente sicurezza e protezione illudendosi che muri, regole, pistole sotto il cuscino, ronde,
prigioni e ghetti, possano metterci al sicuro dal nostro vicino di casa che, tramontata ormai la
comunità, non è più un “nodo” della rete sociale, ma di sicuro un potenziale “serial-killer della
porta accanto”. «Non esiste più la provincia tranquilla, quella dove si poteva lasciare la chiave di
casa sotto lo stuoino: anche qui si sono diffusi comportamenti di protezione, soprattutto tra i
soggetti più deboli come donne, anziani e adolescenti, nonostante gli indici di criminalità
rimangano al di sotto della media nazionale. […] L’epicentro della paura diffusa resta tuttavia la
grande città. È qui che spopolano i comportamenti condizionati dal timore di essere aggrediti ed è
sempre nelle metropoli che il discorso sulla sicurezza è diventato la priorità numero uno nell’agenda
politica degli amministratori pubblici»(12).
In queste condizioni, quindi, la paura, scollegata dai dati di realtà (i report ISTAT ufficiali, ad
esempio, dimostrano una diminuzione dei pericoli sociali anziché un loro aumento), sembrerebbe
ormai aver perso definitivamente il suo potere di problem solving e quindi di utilità sociale. Perché
allora permane? Evidentemente un qualche tipo di utilità c’è, ma non per il corpo sociale nel suo
insieme, quanto per alcune parti di esso: «Come un capitale liquido, pronto per ogni genere di
investimento, il capitale della paura può essere – ed è – trasformato in qualsiasi genere di profitto,
commerciale o politico» (13). Occorre perciò dedicare una breve disamina a questi due fattori.
Dal punto di vista economico, la paura liquida è ancora utile nel senso che “genera utili”, almeno
per qualcuno: il fatturato della “industria di sicurezza” è in continua crescita a non conosce crisi.
«L’economia di consumi dipende dalla produzione di consumatori e i prodotti per combattere la
paura hanno bisogno di consumatori paurosi ed impauriti, animati dalla speranza che sia possibile
allontanare quei temibili rischi e che essi possano riuscirci (naturalmente a pagamento)» (14).
Anche questo fenomeno può essere rivisto attraverso una chiave di lettura tipicamente
transazionale: come in un triangolo drammatico, giocato però a livello sociale, la paura delle
Vittime nei confronti di uno o più Carnefici viene ben alimentata da Salvatori interessati, che hanno
il loro tornaconto non a livello esistenziale con un’inversione di ruoli, ma a livello economico, nel
mantenimento indefinito della disparità di stato (configurandosi quindi più come una forma di
racketeering che non come un gioco, secondo la distinzione proposta da Fanita English).
E a livello politico? Come dicevamo all’inizio di questo paragrafo, quando la paura del Bambino
non viene elaborata attraverso l’Adulto, essa non solo non scompare, ma si alimenta in maniera
incontrollata e necessita di continui interventi genitoriali. E chi è il corrispettivo del Genitore a
livello sociale? Fondamentalmente le istituzioni politiche, da cui ci aspettiamo continue risposte
rassicuranti. È sufficiente, quindi, che il potere costituito individui qualcuno di cui aver paura e
faccia vedere all’opinione pubblica con quante forza ci si stia prodigando per la sicurezza dei
cittadini perché la paura sociale si trasformi in uno strumento di mantenimento del potere costituito.
Il meccanismo funziona bene, a patto di individuare un utile nemico come il terrorismo, la
criminalità straniera o un gruppo sociale debole e non integrato (il che non è difficile). Il resto va da
sé: «Dal punto di vista psicosociale è importante rilevare che la costruzione e la divulgazione di
una nozione di “terrorismo” ambigua […] possono alimentare l’antinomia NOI/LORO che organizza
le relazioni intergruppi. È possibile, infatti presumere che le dinamiche macrosociali che
caratterizzano le società multietniche, con le problematiche relative alla sicurezza e alla integrità
culturale, nonché il costante e continuo riferimento dei mass media al presunto scontro “tra culture”,
finiscano per configurarsi secondo la dinamica contrappositiva NOI/LORO. […] Questa nozione
confusa e massiva del terrorismo può servire per alimentare una strategia di controllo sociale basata
sulla paura di questo nemico, difficilmente riconoscibile e contrastabile» (15).
Continuare ad escludere l’Adulto e lasciare il Bambino nelle sue paure, porta inoltre alla ricerca di
rimedi, «soluzioni “bell’e pronte” che diano sollievo sul momento, analgesici acquistabili senza
prescrizione medica. […] rifiutiamo qualsiasi soluzione che non prometta effetti rapidi e facili ma
richieda per produrre risultati tempi lunghi e magari indefiniti. Ancor più ci infastidiscono le
soluzioni che ci chiedano di prestare attenzione ai nostri di fatti e misfatti, che ci impongano –
socraticamente – di “conoscere noi stessi”» (16). Insomma, un ottimo terreno di coltura per le
suadenti voci dei vari fondamentalismi religiosi, versione sociale del Genitore Normativo Negativo
che dall’esclusione dell’Adulto ha solo da guadagnarci.
Volendo riprendere il concetto di parassitismo emotivo iniziato nel paragrafo sulla rabbia, possiamo
dire di avere a questo punto un quadro più ricco e l’ipotesi di fondo sembra essere più completa ed
affidabile: alcuni centri di potere, attraverso forme di pressione sociale, stanno impedendo
un’adeguata espressione della rabbia, la cui “energia emotiva” viene sostituita da una sovralimentata
paura. Invece di arrabbiarci, come sarebbe naturale fare davanti a certe situazioni, ci impauriamo
sempre di più e non solo perché oggi non c’è più la comunità, ma anche perché la paura è
un’emozione più controllabile, che non mette in discussione (e addirittura rinforza) il potere
costituito.
Attivare l’adulto sociale: un compito per l’AT
Siamo partiti da Bauman e dalla sua definizione di comunità per leggere alcuni cambiamenti sociali
ed il loro impatto sui fattori emotivi collettivi, trovando modo di integrare tale lettura con il
contributo psicologico di Berne e dei suoi successori. C’è però da registrare un punto di distacco tra
i due approcci che ci fornisce un ulteriore spunto di riflessione.
Bauman descrive come ineluttabile il passaggio dalla sicurezza della comunità all’incertezza della
nostra vita liquida. Dal punto di vista emotivo, questo comporterebbe una consequenziale
rassegnazione alla paura generalizzata (e, potremmo aggiungere, alla tristezza solitaria, alla gioia
privata, alla rabbia endemica). Per dirla in termini AT, è come se lo stato dell’io Bambino non
avesse possibilità di elaborare in maniera appropriata le proprie emozioni, potendo contare, come
abbiamo visto, solo su impropri interventi di Genitori Negativi, interessati (per motivi politici ed
economici) a rispondere superficialmente alle richieste emotive del Bambino senza realmente far
crescere la persona/società. E l’Adulto? Che fine ha fatto? Berne & Co. hanno sempre sostenuto che
ogni persona ha un suo Adulto ed è compito di un terapeuta quello di aiutare il cliente a farlo
emergere, rinforzarlo ed integrarlo con gli altri stati dell’io. Si può applicare lo stesso principio
anche a livello sociale? È realistico pensare che l’Adulto, già “vaso di terracotta tra vasi di ferro” in
ambito psicologico, abbia una chance a livello di corpo sociale?
All’interno delle categorie baumaniane, l’Adulto corrisponde alla classe intellettuale e l’autore
sottolinea come sia necessario che tale classe non si isoli dal resto del corpo sociale ma metta a
disposizione di tutti il proprio pensiero per sostenere l’umanità nel suo cammino (17). Non potrebbe
essere questa, a livello sociale, quell’integrazione dell’Adulto con gli altri stati dell’io di cui parla
l’AT a livello di individuo? A mio avviso solo in parte. Trovo infatti nell’AT una eccedenza positiva
che le è propria, una ricchezza ed una maggiore utilità sociale di quella che l’approccio di stampo
post-marxiano possa avere.
Infatti, finché si identifica l’Adulto con una specifica classe sociale (gli intellettuali), rimarrà sempre
il dilemma di come integrare tale classe con le altre (per dirla in termini marxiani, la frattura tra
teoria e prassi resta insanabile). Finché le funzioni dell’Adulto saranno demandate ad un solo
gruppo, finché le facoltà di analisi e di problem solving restano di un’élite intellettuale con
linguaggi propri, non ci sarà alcun progresso. Per attivare l’Adulto in maniera diffusa nel corpo
sociale occorre che le persone che compongono tale corpo siano sostenute nel loro Adulto. Esisterà
un Adulto sociale nella misura in cui esso sarà trasversale alle classi, diffuso, oseremmo dire (alla
Bauman) liquido. E per far questo c’è bisogno di strumenti, linguaggi, apparati concettuali e
strumenti di problem solving di vario tipo che non possono essere caratterizzati dall’elitarismo, ma
devono essere contraddistinti dalla divulgabilità (senza che tale caratteristica comprometta la
forza/serietà o il rigore scientifico). E, guarda caso, l’AT è nata proprio con questa intenzione:
togliere la comprensione delle relazioni umane dalla esclusiva competenza degli specialisti, fare
psicologia fuori dall’accademia, aiutare quante più persone possibile in un processo di
empowerment. È risaputo con quale ironia Berne stigmatizzasse l’approccio élitario degli
accademici e come tutta l’AT sia nata su questa necessaria fiducia negli uomini: «Nell’elaborare i
nuovi concetti della sua teoria, egli usava parole che fossero facilmente comprensibili da tutti. [Ad
esempio, chiamo le facoltà psichiche Genitore, Adulto, Bambino] invece di dar loro termini più
“scientifici” come avrebbero potuto essere Esteropsiche, Neopsiche e Archeopsiche. […] In questo
modo è chiara la sua decisione di rivolgersi non ai suoi colleghi […] ma alle persone con cui
lavorava, offrendo loro un canale di comunicazione nell’ambito del quale poter lavorare insieme.
Questo sulla base della convinzione che ognuno, incluse le persone chiamate “pazienti”, ha a
disposizione uno stato dell’Io Adulto funzionante, che ha solo bisogno di essere attivato e
incoraggiato» (18).
In particolare Berne e la sua scuola hanno dedicato una riflessione attenta proprio al tema delle
emozioni, approfondendone il peso come elemento di giochi, elaborando il tema del racket, ma
anche sottolineando il loro valore di “informazione positiva” per il benessere di tutta la persona. Se
è vero che l’AT può essere una chiave di lettura non solo delle storie individuali, ma anche dei
gruppi sociali, ecco allora che per gli analisti transazionali si delinea con forza il compito di essere
degli “alfabetizzatori emotivi”: aiutare a dare ascolto alle emozioni sociali, sostenere nella loro
gestione “adulta”, contribuire a ripulirle da racket e giochi, perché siano sempre più occasioni di
crescita e vita piena per il maggior numero di persone e sempre meno strumento di manipolazione e
controllo.
All’indirizzo web: http://www.youtube.com/watch?v=IiZxoFdhQX8
potete trovare il video “Emozioni e società: ieri e oggi” preparato per le giornate di Studio
AIAT/IAT di dicembre 2008, la cui realizzazione ha dato il via a questo intervento.
Francesco Aprile
Counselor in Analisi Transazionale
francescoaprile@libero.it – http://counselingedintorni.blogspot.com
NOTE
(1) Bauman Z., (2001), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2003.
(2) Ibidem, p. 13.
(3) Ibidem, p. 4.
(4) Ibidem, p. 6.
(5) Ibidem, p. 48.
(6) Ibidem, p. 68.
(7) Piccinino G., (2006), Il piacere di lavorare. Viaggio in se stessi per ritrovare la passione del
fare, Edizioni Erickson, Trento, p. 133.
(8) Ibidem, p. 130.
(9) Stewart I. – Joines V., (1987), L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti
umani, Garzanti, Milano 1990, p. 271.
(10) Bauman Z., (2006), Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 126.
(11) Ibidem, p. 172.
(12) Barberi M., Paure in-controllate, in “Mente&Cervello, n °45/2008”. p 34.
(13) Bauman Z., (2006), Paura…, op. cit., p. 180.
(14) Ibidem, p. 11.
(15) Battistelli P., Palareti L., Passini S., Il terrorista, un “utile” nemico?, in “Psicologia
Contemporanea n° 203/2007”, p. 38.
(16) Bauman Z., (2006), Paura…, op. cit., p. 143.
(17) Cf. tutto l’ultimo capitolo di Bauman Z., (2006), Paura…, op. cit.
(18) Steiner C. (1974), Copioni di vita. Analisi transazionale dei copioni esistenziali, Ed. La Vita
Felice, Milano 1999, p. 6.
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BIBLIOGRAFIA
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– Battistelli P., Palareti L., Passini S., Il terrorista, un “utile” nemico?, in “Psicologia
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– Steiner C. (1974), Copioni di vita. Analisi transazionale dei copioni esistenziali, Ed. La Vita
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– Stewart I. – Joines V., (1987), L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani,
Garzanti, Milano 1990.
– Thomson G., (1984), Paura, rabbia e tristezza, in “aT, n°6/1984”.
Berne Counseling – l’Analisi Transazionale per il sociale
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