I CONFINI DEL COUNSELLING IN ANALISI TRANSAZIONALE
Marco Mazzetti
Riassunto
Il counsellor analista transazionale è un operatore che svolge una professione
d’aiuto volta alla gestione dei problemi mediante la valorizzazione delle risorse
del cliente, con un’azione nel presente e una visione strategica delle possibili
implicazioni del suo intervento, svolto con gli strumenti dell’Analisi Transazionale
di cui è competente. Conosce il contesto in cui opera ed è flessibile
nella scelta di setting e tecniche d’intervento.
La sua identità è definita da confini etici, legali e operativi: mentre i primi,
individuati dal codice etico dell’EATA, e gli ultimi possono essere agevolmente
delineati, non altrettanto può dirsi per quelli legali. Per questa ragione
appare necessario che il counsellor sappia proteggere con cura la propria professione,
sia utilizzando efficacemente gli altri tipi di confini sia adottando precauzioni
appropriate.
L’identità del counsellor
Il Manuale per la formazione e gli esami dell’EATA (EATA, 2008) definisce
in questi termini il counselling analitico transazionale:
è un’attività professionale all’interno di una relazione contrattuale. Il processo
del counselling mette i clienti, o i sistemi-clienti, nelle condizioni di sviluppare
nella vita quotidiana (attraverso il potenziamento dei loro punti di
forza, delle risorse e dell’efficacia nelle funzioni) la consapevolezza, le opzioni
e le capacità nella gestione dei problemi e nello sviluppo personale. Obiettivo
del counselling è incrementare l’autonomia nell’ambiente sociale,
professionale e culturale.
Il campo del counselling è scelto da professionisti che lavorano nei settori socio-
psicologici e culturali. Esempi di questi settori sono i sistemi di welfare,
la salute, il lavoro pastorale, la prevenzione, la mediazione, la facilitazione dei
processi, il lavoro multiculturale e le attività umanitarie (EATA, 2008).
Partendo da questa definizione, possiamo definire il counsellor in primo
luogo come colui che svolge una professione di aiuto; poi, che quest’aiuto
è focalizzato sulla risoluzione di problemi e sulla realizzazione delle poten-
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zialità dei clienti, mediante l’individuazione e la valorizzazione dei loro
punti di forza; l’intervento si basa, inoltre, su una valutazione della situazione
e delle possibili risorse “qui e adesso”; infine, il suo campo di applicazione
è quanto mai vario.
La distinzione tra counselling complementare e primario ci dice anche che
il suo setting è altamente flessibile. Per counselling complementare s’intende,
infatti, quell’attività in cui le competenze del counsellor sono utilizzate
a sostegno di un’altra funzione professionale, pur sempre con la finalità di
gestire o risolvere problemi e ottimizzare l’efficacia della persona nel perseguire
il proprio benessere.
Esempi di counselling complementare sono, ad esempio, in ambito sanitario
quello del medico che sostiene l’adesione dei pazienti HIV-positivi alle complesse
terapie che devono seguire, o della puericultrice che promuove in
modo efficace l’allattamento al seno; in ambito legale quello del consulente
che aiuta il richiedente asilo a preparare in modo efficace la sua domanda,
tenendo conto delle condizioni psico-fisiche di questo e del contesto socio-
politico in cui viene presentata; in ambito economico è un counsellor complementare
efficace il dirigente che sa motivare e far lavorare con soddisfazione
e successo i suoi dipendenti; in ambito sociale l’assistente sociale che
sa affiancare gli aspetti amministrativi del suo ruolo con un’efficace azione
di empowerment dei suoi assistiti. Sono solo alcuni esempi che ci danno l’idea
di quanto possa essere vario, flessibile e complesso il setting del counsellor.
C’è poi anche la figura del counsellor primario che è, invece, il professionista
che opera direttamente nell’aiuto alla persona, senza avere la finalità di sostenere
altre funzioni.
Queste considerazioni ci aiutano a definire l’identità del counsellor come
quella di un professionista assai ben individualizzato nel suo operare: focalizzato
sul “qui e ora”, pragmatico, volto alla soluzione dei problemi, capace di interventi
flessibili, rapidi, orientati all’obiettivo, in grado di adattarsi a numerosi
campi d’azione e a diversi setting.
È il caso di partire da un profilo simile per definire i confini del suo
operato, per evitare il rischio di considerare il counsellor – come a volte forse
può avvenire – una sorta di psicoterapeuta di una categoria inferiore. A
mio avviso non è così, e definire una categoria professionale per “sottrazione”
rispetto a un’altra può far perdere di vista le proprietà e le ricchezze della
prima. È ben comprensibile, quasi ovvio, che esistano confini in una professione,
e che questi confini debbano essere definiti. E questo vale per ogni
professione: i confini sono – più che limiti – elementi che danno forma, che
definiscono un’identità, solida di per sé, e non per confronto (sottrattivo)
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rispetto a un’altra. Tra le professioni d’aiuto ci sono ampie zone di sovrapposizione,
e questo è tanto più vero per gli analisti transazionali, perché
questi, oltre a praticare professioni affini, le svolgono anche con gli stessi
strumenti operativi. In un suo noto articolo, José Grégoire (Grégoire, 1998)
ha parlato, a questo proposito, di “involucri di coerenza”: confini di un tipo
diverso da quelli territoriali, che non si definiscono in contrapposizione,
ma che «circoscrivono lo spazio all’interno del quale un’energia, un’appartenenza
o un processo sono coerenti». Sono confini, continua Grégoire, che
«si determinano in rapporto a un’identità, a una coerenza o a regole proprie,
indipendentemente dall’esterno. Perciò tali confini si compenetrano senza confondersi
» come le linee che delimitano i diversi terreni di pallacanestro, pallavolo
e pallamano sul pavimento della stessa palestra. Buona parte del terreno
su cui questi sport si svolgono è lo stesso, e le diverse linee si limitano
a dare forma e identità ai campi dei diversi sport.
Il counsellor analista transazionale è quindi, in primo luogo, un esperto
di Analisi Transazionale: ne conosce la storia, la teoria e l’applicazione pratica;
è un esperto nella diagnosi strutturale e funzionale degli Stati dell’Io
così come di quella di copione e sa riconoscere le transazioni, i giochi, gli
aspetti connessi alla teoria della passività, a quella degli empasses e agli altri
elementi che ne costituiscono il corpus teorico complessivo. Sa tenere
conto di questi aspetti nei suoi interventi, sa comprenderne le implicazioni
e i possibili effetti, sia quelli direttamente cercati nel suo counselling, sia
quelli che possono manifestarsi come “effetti collaterali”: un esempio di
questi ultimi sono i possibili effetti sul copione dei suoi interventi. Non va
infatti trascurato il possibile effetto curativo della consulenza: il counselling
può avere (e molto spesso ha) un effetto terapeutico, che non è però direttamente
voluto. Lo scopo dell’intervento del counsellor è la gestione/
risoluzione del problema, e a questo si indirizza la sua azione; il counsellor
competente è però capace di prevedere i possibili effetti dei suoi interventi
sul copione, in modo da adottare le cautele necessarie.
Il counsellor analista transazionale è poi un esperto della relazione d’aiuto:
sa conoscerne le caratteristiche, individuare le dinamiche relazionali che
possono entrare in gioco (comprese quelle transferali e controtransferali),
sa fare diagnosi di punti di forza in modo da mobilitare le risposte possibili
e sa contestualizzare il suo intervento nell’ambiente sociale del cliente.
È inoltre competente dello specifico ambiente in cui avviene la sua opera:
ad esempio, se il suo compito è aiutare una persona a trovare un impiego,
conoscerà almeno a grandi linee le dinamiche del mercato del lavoro nella
realtà in cui opera.
Possiamo quindi proporre questa definizione del counsellor analista tran-
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sazionale: è un operatore che svolge una professione d’aiuto volta alla gestione/
soluzione dei problemi mediante la valorizzazione delle risorse del cliente,
con un’azione nel tempo presente e una chiara visione strategica delle possibili
implicazioni future del suo intervento, svolto con gli strumenti dell’Analisi
Transazionale di cui è competente. Conosce il contesto in cui opera ed è pronto
a una spiccata flessibilità di setting e di tecniche d’intervento.
Come le altre professioni, anche quella del counsellor analista transazionale
è definita da tre tipi di confini: etici, legali e operativi, che prenderemo
in considerazione di seguito.
Confini etici
I confini etici del counselling sono, tutto sommato, piuttosto semplici da
definire. Il punto di partenza è il codice etico dell’Associazione Europea di
Analisi Transazionale (EATA, 2006) il quale definisce in primo luogo alcuni
valori basici, desunti dalla dichiarazione universale dei diritti della persona
umana (ONU, 1948) che sono la dignità di ogni essere umano, il suo
diritto all’autodeterminazione, alla salute fisica e psichica e alla sicurezza personale,
e il principio di mutualità, cioè l’impegno reciproco a promuovere
il benessere gli uni degli altri.
Il primo mandato del counsellor analista transazionale è quindi il rispetto
della dignità di ogni essere umano, il suo impegno a non danneggiare e
anzi a promuovere l’autodeterminazione, la salute e la sicurezza altrui e di
comportarsi con le persone con cui entra in contatto nel corso del suo lavoro
secondo il principio di mutualità.
Questi valori di base trovano la loro applicazione in specifici principi etici:
il rispetto per gli individui, l’empowerment, cioè la funzione di potenziare
le capacità delle persone, la protezione, la responsabilità e l’impegno
nelle relazioni. Ognuno di questi principi viene declinato in direzione di
differenti aree: i clienti, sé in quanto professionisti, gli allievi, i colleghi e
l’ambiente in cui il counsellor svolge la sua opera, intendendo per ambiente
il complessivo ambito socio-ambientale, a partire dal microcosmo in cui
si svolge la sua consulenza al cliente per ampliarsi alla città, al paese e al mondo
intero.
In altre parole, nel corso della sua professione il counsellor analista transazionale
etico esercita il massimo rispetto verso tutti gli attori coinvolti
nella sua azione, partendo dal suo cliente e da se stesso, per continuare con
le altre persone eventualmente coinvolte (familiari, altri professionisti e altre
persone del microcosmo sociale del cliente), con i propri colleghi, gli
eventuali allievi e si propone di agire in modo che l’intero ambiente risenta
positivamente della sua azione. Verso tutti questi soggetti si assicura che
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l’effetto sia una promozione delle capacità personali e della protezione, che
per ognuno vengano valorizzate e riconosciute le reciproche responsabilità
e che questo avvenga all’interno di un impegno nelle relazioni.
Confini così delineati non dovrebbero creare difficoltà: penso possano
essere agevolmente accettati da ogni professionista etico.
Tuttavia i problemi possono sorgere quando non vi sia chiarezza sulle caratteristiche
del proprio intervento, o quando ci si trovi di fronte a conflitti
etici. O quando entrambi questi casi coesistono.
Un esempio può forse essere utile nel presentare questo tipo di possibili
difficoltà.
Immaginiamo che un counsellor stia lavorando con un cliente che ha bisogno
di una consulenza nella ricerca di lavoro, e che operi presso un’agenzia
con questa ragione istituzionale. Il professionista riconosce con la propria
competenza una serie di difficoltà del cliente che fa risalire all’effetto delle
ingiunzioni “non riuscire” e “non pensare”. Si attiva quindi per promuovere
la capacità di pensare del cliente tramite un’energizzazione dello Stato
dell’Io Adulto, una serie di operazioni berniane focalizzate alla comprensione
delle difficoltà, all’individuazione delle possibili soluzioni e con
interventi che aumentino la protezione e veicolino il permesso a pensare e
a “farcela”.
Durante l’intervento il paziente si arresta, si commuove, rivive le emozioni
di quando si trovava di fronte a un padre svalutante e consente quella
che, con Berne, definiremmo una diagnosi fenomenologica dei suoi problemi
(Berne, 1961). Il counsellor riconosce questa situazione e pensa che
il suo cliente abbia bisogno di una ridecisione. A questo punto può richiamare
delicatamente il suo cliente nel tempo presente, inviare transazioni allo
Stato dell’Io Adulto del suo interlocutore e, quando questo sia energizzato,
invitarlo a pensare soluzioni possibili qui e adesso, considerando inoltre
la possibilità di suggerirgli una psicoterapia. Oppure può scegliere di mantenere
il suo cliente in una situazione regressiva, accompagnandolo in un
processo di ridecisione, ritenendo di averne le competenze.
È evidente che in questo secondo caso l’intervento si presenta come squisitamente
terapeutico: è infatti orientato a cambiare il copione del cliente
e solo in un secondo momento, eventualmente, ad aiutarlo nella risoluzione
del suo problema. Nel primo caso, al contrario, lo scopo dell’intervento
si mantiene chiaramente centrato sulla soluzione del problema, e un
eventuale effetto terapeutico che ne possa derivare (e che può, beninteso,
essere anche auspicato) non è direttamente cercato.
Una valutazione etica di queste differenti scelte può, a primo avviso,
non essere così facile. Immaginiamo che il counsellor sia efficace nel favo-
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rire la ridecisione del cliente. Questi ne riceve un indubbio beneficio, presto
mostra miglioramenti significativi del proprio funzionamento, e magari
trova anche un buon lavoro. Potrebbe esserci chi ritiene etico questo intervento,
perché la salute e l’empowerment del cliente ne hanno avuto un
beneficio, e quindi alcuni valori base e principi etici sono stati soddisfatti.
Se tuttavia consideriamo altri aspetti, la questione appare più complessa:
tra il counsellor e il cliente vi è, infatti, un impegno esplicito a fare counselling,
non terapia. Un intervento francamente terapeutico lede quindi il
contratto professionale di base. Una lesione unilaterale del contratto, in Analisi
Transazionale, pone più di un interrogativo etico; possiamo considerarlo
un comportamento che mette in discussione il rispetto reciproco,
venendo meno la parità della relazione, e questo anche se il cliente in quel
momento esplicitamente acconsentisse a proseguire nell’intervento terapeutico:
ci si potrebbe, infatti, interrogare sulla validità di un consenso emesso
in un momento di regressione. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito
della responsabilità, che viene assunta in toto, e in modo non contrattato,
dall’operatore.
Ma probabilmente il principio etico maggiormente messo in pericolo è
quello della protezione: come viene assicurata al cliente che è entrato nella
stanza con un altro obiettivo? Come è assicurata la protezione del counsellor
stesso che si impegna in un’operazione per la quale non è autorizzato
(almeno in quel setting: il counsellor potrebbe essere anche uno psicoterapeuta
abilitato, ma non è in quel setting che l’accordo prevede una psicoterapia)?
Come è protetto il contesto, ovvero l’agenzia per la ricerca del
lavoro? Come sono protetti gli altri counsellor per il fatto che un loro collega
si comporti così?
Quali potrebbero essere state le conseguenze se l’intervento di ridecisione
non fosse andato a buon fine e il cliente se ne fosse tornato a casa addolorato
e con una ferita psicologica aperta?
Pur fermandoci all’ipotesi più felice, ovvero che l’intervento abbia avuto
buon fine, appare evidente che ci troviamo, quanto meno, in presenza
di un conflitto etico: il principio di empowerment e di promozione della
salute contro quello di protezione, e probabilmente anche di rispetto e di
responsabilità. I problemi etici generalmente non si pongono per esplicite
sfide a principi consolidati: in questi casi la risposta è generalmente agevole
da offrire; assai più spesso appaiono quando siamo in presenza di conflitti
etici, cioè uno o più principi riconosciuti appaiono in contrasto con altri.
Nella definizione di cosa sia etico, sembra utile, in primo luogo, distinguere
tra “buona intenzione” dell’intervento e buona pratica etica: accettiamo
senz’altro la buona fede del nostro operatore e il suo desiderio di
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giovare al cliente, ma, per dirla con le parole di McGrath (1994), il professionista
«può confondere la buona intenzione con la buona pratica etica,
vale a dire che può presumere che, non avendo l’intenzione di danneggiare
o sfruttare il suo cliente, il suo lavoro sia necessariamente etico».
In realtà le buone intenzioni e la pratica etica non sempre coincidono.
Per promuovere una buona pratica etica nel caso del nostro esempio dobbiamo
quindi considerare che, di fronte a un dilemma etico (cioè principi
in conflitto), è necessario definire i parametri della scelta, identificando
una gerarchia tra i possibili principi in gioco (Chang, 1994).
In altre professioni d’aiuto, e in specie in medicina e psicoterapia, esiste
una folta letteratura su come orientarsi per una pratica professionale etica.
Principi su cui convergono gran parte degli esperti sono questi: “non maleficalità”
(non procurare danno), “beneficalità” (fare il bene), “fedeltà”
(onorare gli impegni), “giustizia” (agire in modo equo) e “autonomia” (promuovere
l’autodeterminazione) (Kitchener, 1988, Thompson, 1990, Mc-
Grath, 1994).
Se ci poniamo in questa prospettiva, possiamo anche ipotizzare che l’intervento
del counsellor abbia onorato i principi di non fare il male e fare il
bene. Ma va detto che vi è stata indubbiamente una lesione della lealtà
(verso la professione di counsellor e i suoi confini), della giustizia (perché non
tutti i clienti del counsellor saranno trattati allo stesso modo) e – forse –
dell’autonomia del paziente, se dubitiamo della validità del suo consenso
all’operazione terapeutica messa in atto. Inoltre queste considerazioni sono
possibili solo se diamo a posteriori una valutazione dell’intervento, e
nell’ipotesi che l’esito sia stato felice. Ma un giudizio etico per avere validità
deve poter essere universale, cioè deve poter essere formulato indipendentemente
dall’esito dell’intervento; se uno psicoterapeuta, in un setting
e con un chiaro contratto di terapia, sceglie al momento opportuno di
favorire una ridecisione, il suo intervento rimane etico anche se l’operazione
non dà i risultati sperati, perché fa parte degli incerti professionali che
non tutti gli interventi abbiano successo.
Nel nostro esempio, al contrario, un eventuale fallimento toglierebbe
all’intervento ogni giustificazione etica.
Rimanere nei confini della professione, essere leali verso di essa, è quindi
il primo imperativo etico, perché costituisce la premessa per la liceità
degli interventi. Proprio come l’ingegnere che non discute cause in tribunale,
l’avvocato che non prescrive farmaci, e il medico che non progetta
costruzioni.
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Confini legali
Se i confini etici dell’attività del counsellor sono tutto sommato piuttosto
agevoli da delineare, la situazione si fa più complessa quando si parla di
confini legali. In Italia il counselling non è regolamentato. Non esistono
leggi che definiscano il profilo professionale del counsellor, le sue mansioni
e le situazioni in cui queste possano venire attuate.
Il counsellor non ha quindi parametri sicuri entro cui muoversi. Si trova
in una situazione ambigua in cui apparentemente tutto può essere permesso,
e anche nulla è permesso. Come orientarsi? È verosimile che un primo
limite all’applicazione del counselling derivi dai territori connotati e
“difesi” da altre professioni regolamentate e che tanto più sia forte e solida
la professione contigua regolamentata, tanto più difenderà i suoi confini e
potrà ostacolare la libertà d’azione del counsellor.
In realtà, pur in assenza di normativa legale, il counselling non è sconosciuto
nella pubblicistica ufficiale della Repubblica Italiana. Se ne è occupato
infatti il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), che
è un organo costituzionale e quindi un’istituzione ufficiale della repubblica,
ed è definito dall’articolo 99 della Costituzione in questi termini «È un
organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni
che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire
alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi
ed entro i limiti stabiliti dalla legge». Il CNEL conduce da diversi anni una
sorveglianza sulle professioni non regolamentate (CNEL, 1994, 1996,
1998, 2000, 2003, 2005). Nel suo ultimo rapporto sull’argomento (CNEL,
2005) il Consiglio delinea il panorama delle professioni in Italia, ne ricorda
l’organizzazione basata su Ordini e Collegi professionali e traccia poi il
profilo dei “professionisti non regolamentati”: «lavoratori autonomi che svolgono
una professione non protetta da Albi o Ordini specifici”, “per lo più di prestatori
d’opera, che stabiliscono un rapporto di lavoro sulla base del raggiungimento
di un obiettivo richiesto dal committente con lavoro prevalentemente
proprio e senza vincolo di subordinazione, decidendo tempi, modalità e mezzi
necessari per il compimento dell’opera» e che esercitano «attività di più recente
configurazione, diverse tra di loro e diffuse soprattutto nel settore dei servizi,
che si caratterizzano per la saltuarietà della commessa, che viene svolta però
in un in contesto professionale stabile e regolare con determinati fini e obiettivi
» (pag. 12). Il CNEL ha anche redatto, secondo i propri compiti costituzionali,
una proposta di legge che si propone di affiancare alle professioni
regolamentate un sistema in grado di definire e dare una riconoscibilità a
quelle non regolamentate, istituendo un registro delle associazioni a cui
fanno riferimento i professionisti che vi appartengono; un esempio di que-
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ste associazioni potrebbe essere il Coordinamento Nazionale Counsellor
Professionisti (CNCP).
Tuttavia, nonostante questi movimenti istituzionali, al momento presente
non esistono norme che riconoscano, e quindi anche proteggano, il
counsellor nell’esercizio della sua professione.
Il rapporto del CNEL ci è utile, oltre che per fare il punto sulla situazione
legale della professione in Italia, anche per vedere in che modo l’attività
di counselling viene catalogata. Il rapporto definisce sette categorie professionali
e gli “esperti di counselling” vengono iscritti in quella definita “Cura
psichica”, il che probabilmente non aiuta l’autonomia della professione,
mettendola in diretta relazione (e quindi in diretto contrasto) con il mondo
della psicoterapia.
Come sappiamo, in Italia la psicoterapia gode di una regolamentazione
strettissima dall’anno 1989 (Legge 56.1989). Per l’esercizio della psicoterapia
è necessaria una laurea in psicologia o in medicina, l’iscrizione agli albi
delle relative professioni, una specializzazione quadriennale e un’ulteriore
registrazione in un albo speciale, quello degli psicoterapeuti, all’interno
di quelli professionali. Le scuole di specializzazione sono sottoposte a una
normativa assai stringente sia per quanto riguarda i programmi che per le
modalità di erogazione della formazione. Si tratta di una delle leggi più
esigenti in Europa, almeno dal punto di vista formale. Sul piano sostanziale,
ovvero per quanto riguarda la qualità della psicoterapia effettivamente offerta
ai cittadini italiani, non ho trovato nella letteratura scientifica nessuno
studio scientifico che la misuri. Non siamo quindi in grado di poter dire
se, a distanza di oltre vent’anni dalla legge, la popolazione italiana goda
oggi di un’offerta psicoterapeutica di qualità migliore, uguale o peggiore sia
rispetto a quella ante-legge, sia nei confronti di quella presente negli altri
paesi europei, dove la regolamentazione è meno stringente. Gli stessi controlli
di qualità sulle scuole si concentrano sugli aspetti burocratici e procedurali,
e non vengono fatte indagini, neppure a campione, sulla effettiva
qualità degli psicoterapeuti diplomati. Indipendentemente dai risultati,
tuttavia, la psicoterapia risulta in Italia fortemente protetta sul piano legislativo,
ed è altamente rischioso per il counsellor fare operazioni che le si possano
avvicinare, assai più di quanto possa avvenire in altri paesi europei. I
confini legali da questo punto di vista sono rigidi.
Il counsellor non può quindi – non solo sul piano etico, come abbiamo
visto in precedenza, ma anche su quello legale – svolgere attività terapeutica.
Tuttavia possono esserci difficoltà anche a definire quali siano le altre operazioni
consentite, perché l’area di attività del counsellor si sovrappone in
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parte (come ci ricorda anche il CNEL inserendo nella categoria “cura psichica”
la professione) a quella del mansionario dello psicologo, professione al contrario
solidamente protetta da un albo professionale. Secondo la legge istitutiva
della professione (Legge 56/1989), è proprio dello psicologo «l’uso
degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività
di abilitazione e riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte
alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità»; diventa difficile
sostenere che il counsellor non svolga, almeno in parte, alcune di queste
attività.
Dopo l’istituzione delle lauree brevi, inoltre, il Decreto del Presidente della
Repubblica n. 328 del 5 giugno 2001 ha modificato, tra altri, l’ordinamento
della professione di psicologo e ha definito figure professionali nuove,
anch’esse iscrivibili all’albo degli psicologi con il titolo di “psicologi juniores”,
titolo poi modificato in “dottori in tecniche psicologiche” con la
Legge 170 dell’11 luglio 2003.
Questi provvedimenti legislativi elencano nel mansionario delle nuove
figure professionali attività tipicamente del counsellor come, ad esempio,
promuovere le potenzialità di crescita individuale e di integrazione sociale,
facilitare i processi di comunicazione, migliorare la qualità della vita,
realizzare interventi per sostenere la relazione genitori-figli e ridurre il carico
familiare, svolgere attività di promozione della salute e di modifica dei
comportamenti a rischio, da esercitare in collaborazione con lo psicologo
senior.
Ci troviamo quindi su di un terreno delicato, ed è fondamentale che, almeno
in Italia (come abbiamo detto, la situazione è assai differente in altri
paesi europei), il counsellor sia consapevole della necessità di proteggersi
dal rischio di un’accusa di esercizio abusivo della professione psicologica.
La situazione appare assai meno problematica per l’attività di coaching,
che è sostanzialmente il counselling svolto all’interno delle organizzazioni,
perché questa professione si configura (ed è infatti così classificata dal rapporto
del CNEL) nell’ambito dei “servizi alle imprese”, evitando riferimenti
alle “cure psichiche”.
Una possibile sovrapposizione potrebbe esserci anche con la figura professionale
degli assistenti sociali, anch’essa tutelata da un ordine (istituito
dallo stesso DPR 328/01), e che prevede tra le sue peculiarità, tra l’altro, il
sostegno e il recupero di persone e famiglie in situazioni di bisogno e di disagio.
I rischi appaiono tuttavia più limitati, in questo caso, per il diverso
contesto in cui si agisce.
Come può dunque proteggersi legalmente il counsellor in Italia? Questa
domanda è forse più appropriata che chiedersi quali siano i confini legali
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della sua azione, perché questi ultimi appaiono sostanzialmente non definibili,
mancando una regolamentazione della professione.
In primo luogo il counsellor appare ben protetto quando svolge la sua funzione
in modo complementare a un’altra professione: educatore, assistente
sociale, operatore sanitario eccetera. In questi casi è infatti la figura professionale
primaria in cui si riconosce a fornirgli identificazione e protezione
legale.
Quando invece svolge un’attività di counselling primario, il professionista
si protegge in primo luogo evitando di offrire consulenze a persone in
condizioni di disturbo psichico, a meno che questa non venga offerta all’interno
dei servizi dedicati alla salute mentale e in collaborazione con psichiatri
o psicologi; poi lavorando in rete con professionisti della salute mentale
in modo da offrire immediatamente l’aiuto appropriato qualora si rendesse
necessario per i loro clienti; e infine rimanendo rigorosamente all’interno
dei confini operativi ed etici della professione.
Mi sembra inoltre consigliabile che il counsellor si costruisca un curriculum
formativo e professionale accurato, che ottenga attestati appropriati
(ad esempio la certificazione di analista transazionale counsellor) e che faccia
parte di associazioni professionali che potrebbero agire come una sorta
di “sindacato” del proprio operato.
Queste precauzioni potrebbero essere preziose in vista di modifiche future
della normativa: è infatti possibile che in futuro possa venire in qualche
modo definita questa figura professionale, di cui, come abbiamo visto,
ci si occupa anche a livello istituzionale. È assai probabile che questo avvenga
almeno a livello europeo, e che eventuali direttive entrino poi a far parte
della legislazione italiana. Da questo punto di vista, certificazioni e appartenenze
ad associazioni professionali nazionali e internazionali potrebbero
costituire dei punti di forza per il riconoscimento del proprio ruolo professionale.
Confini operativi
Abbiamo finora delineato in primo luogo l’identità professionale del
counsellor, poi i confini etici del suo operato, e infine la situazione legale in
cui opera nel nostro paese.
Penso che possa essere utile spendere ancora qualche parola a questo
proposito per sottolineare la differenza tra ciò che è etico e ciò che è legale:
potremmo infatti trovarci in situazioni in cui un comportamento può
essere legale ma non etico e viceversa. Ad esempio se io, durante un’attività
di counselling, facessi un intervento psicoterapeutico, potrei apparire nella
legalità, essendo io psicoterapeuta e psichiatra; ma non sarei etico, per le ra-
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gioni dette in precedenza: perché farei operazioni inappropriate al setting
e al contratto di consulenza che mi vincola in una certa situazione. Al contrario,
un counsellor etico potrebbe trovarsi in difficoltà a causa della carenza
di norme che proteggono il suo operato, ed è quindi necessaria molta
prudenza e capacità di proteggersi.
Come si è detto parlando di etica, è fondamentale che il counsellor professionista
agisca all’interno dei confini della professione così come è definita
dalla teoria e dalla prassi in Analisi Transazionale, mantenendo la propria
lealtà verso di essa.
Nei primi anni dell’Analisi Transazionale post-berniana si mise l’accento
sulla differenza tra processo e contenuto del copione, e Taibi Kahler
scrisse in proposito un breve articolo (Kahler, 1975) che può essere utile nel
definire il campo d’azione del counsellor e i suoi confini operativi. Il “contenuto”
del copione riguarda i bisogni sottesi alle scelte copionali e i tornaconti
(decisi da ingiunzioni, ordini, decisioni di copione eccetera) mentre
il “processo” si riferisce alle modalità con cui il contenuto si manifesta,
autorinforzandosi, nel comportamento attuale.
Possiamo in linea di massima dire che sia contenuto che processo interessano
la diagnosi del counsellor, ma la sua azione si concentra solo sul
processo.
Questo concetto è ben approfondito e reso attuabile da un modello operativo
che mi pare di buona efficacia pratica nel definire il territorio del
counsellor: il Comparative Script System (CSS, Sistema-copione comparato).
Il modello è stato creato in origine (Sills e Salters, 1991, Lapworth, Sills
and Fish, 2001) come uno strumento per integrare le diverse scuole di
AT, e per agevolare la diagnosi e il trattamento. È stato chiamato “sistemacopione”
perché costituisce una mappa di come si forma, agisce e si mantiene
il copione. Il termine “comparato” si rifà alla sua funzione originaria,
quella di mettere a confronto e integrare le teorie delle diverse scuole di
AT.
Come si può vedere in figura 1, si tratta di un cerchio diviso in due
metà: a destra e in alto (settori A e B) c’è il passato, a sinistra e in basso (settori
C e D) il presente.
Nella sezione A ci sono le esperienze originarie e le loro ripetizioni, il protocollo
originario di copione e i successivi palinsesti (Berne, 1961), la costruzione
dell’attaccamento primario e le prime esperienze relazionali, oltre
a quelle che si sono poi succedute nel tempo. Nella sezione B ci sono i
significati che la persona ha desunto dalle esperienze iscritte nella sezione
A: le prime convinzioni di copione su sé, gli altri e il mondo, le ingiunzioni,
le decisioni, la posizione esistenziale eccetera.
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Questi contenuti influenzano, comprensibilmente, i modi con cui la
persona pensa e sente nel presente (sezione C), e queste esperienze interne
sono alla base dei suoi comportamenti (sezione D). (Figura 1)
I comportamenti attuali, a loro volta, si vanno ad aggiungere alle esperienze
primarie, rinforzando le convinzioni di copione e completando così
il ciclo. Possiamo dire che i settori A e B corrispondono al “contenuto”
del copione, e quelli C e D al processo con cui si manifesta e autorinforza.
Gli stimoli sociali e ambientali hanno un impatto sul settore C, attivando
i vissuti nel qui e ora, e determinando le scelte comportamentali, che
si esprimono con le transazioni (settore D).
Penso che siano immediatamente visibili le somiglianze con il sistema ricatto
(Erskine & Zalcman, 1979). Rispetto a questo classico modello, il Comparative
Script System (CSS) offre il vantaggio, a mio modo di vedere, di una
notevole rapidità e flessibilità di utilizzo. Può essere utilizzato con vantaggio
nelle supervisioni (Sills e Mazzetti, 2009), e concordo con Keith Tudor
che la supervisione può essere legittimamente vista come un processo di counselling,
volto ad accrescere e realizzare le potenzialità dell’operatore (Tudor,
2002).
Come in supervisione, anche nel counselling il professionista si occupa
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Figura 1 (da Sills e Mazzetti, 2009)
del “là e allora”, ma solo a fini diagnostici, per comprendere il suo cliente
e le possibili implicazioni dei propri interventi. Il suo intervento tecnico si
ferma invece ai settori C e D, ovvero al qui e adesso.
Se riprendiamo l’esempio fatto all’inizio dell’articolo, a proposito dei
confini etici, possiamo agevolmente ipotizzare cosa il nostro counsellor possa
identificare del copione del suo cliente. Nel settore B ha ipotizzato l’esistenza
di ingiunzioni “non riuscire” e “non pensare”, e una spinta “sforzati”,
che ha identificato sulla base dei comportamenti agiti dal cliente (diagnosi
comportamentale). Nel momento in cui questi entra a contatto con
il suo ricordo, parla del padre svalutante e regredisce di fronte a qualche scena
primaria, può legittimamente confermare con la diagnosi storica e fenomenologica
le ipotesi copionali che aveva fatto, e ne terrà conto nei suoi
successivi interventi.
Sul piano operativo, tuttavia, rispetta il confine del suo intervento, la diagonale
che separa i settori C-D (il tempo presente) da quelli A-B (il passato),
interagisce solo con i primi richiamando delicatamente il cliente dalla regressione
al qui e adesso, e si concentra nella gestione del problema attuale.
Avendo fatto una diagnosi appropriata delle sezioni A e B disegna la sua
strategia, focalizzata sull’energizzazione dell’Adulto, sulla sua eventuale
decontaminazione, sulla consapevolezza dei bisogni presenti, sul modellare
protezione e permesso.
Se il suo intervento avrà successo, e il cliente – attuando strategie efficaci
– troverà un lavoro, avrà interrotto il processo di copione e aiutato la
persona a risolvere un problema, senza sconfinare dai propri confini etici
e operativi. Nel frattempo avrà anche aiutato il cliente a costruire e a valorizzare
un’esperienza nuova, che disconfermerà alcuni aspetti del contenuto
del copione. È possibile che in questo modo la physis di quest’ultimo
(Berne, 1947/1968; Clarkson, 1992) trovi un nuovo cammino e modifichi
qualcosa anche del contenuto del copione. Del che il nostro counsellor
sarà felice, e lo considererà un effetto collaterale, gradito, che potrà dare stabilità
al successo raggiunto, ma che non faceva, e non fa, parte del suo compito
professionale.
Conclusioni
Possiamo concludere queste note osservando come le diverse prospettive
con cui ci siamo avvicinati alla figura e all’identità del counsellor analista
transazionale oggi, nel nostro paese, non siano in realtà aspetti differenti,
ma piuttosto differenti sfaccettature della stessa realtà. I confini operativi
consentono di dare sostanza e indirizzo a quelli etici, questi ultimi forniscono
potenza e solidità ai precedenti.
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La cura e l’attenzione a entrambi, poi, costituiscono il presupposto principale
a orientarsi tra i confini legali del counselling, oggi in Italia i meno
definiti e nei confronti dei quali maggiore sembra essere da parte del professionista
la necessità di cautela e di autoprotezione.
Queste conclusioni sono necessariamente provvisorie: è possibile (e molti
di noi lo auspicano) che la realtà normativa vada incontro a modifiche
nel futuro, in modo da poter completare il disegno a tutto tondo di una professione
stimolante come poche, per la sua capacità di intervenire nell’ambiente
sociale con flessibilità, adattandosi ai bisogni e alle emergenze dettati
dal dinamismo della nostra società contemporanea.
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