La recensione di Berne Counseling

Direi prima di tutto che questo è un film che tutti gli adolescenti e post adolescenti, a rischio bamboccionaggine, dovrebbero vedere, naturalmente di nascosto da certi genitori che sicuramente si preoccuperebbero, qualcosa tipo gita collettiva per darsi coraggio nella vita.

La musica è bella ed è di Eddy Wedder, voce solista dei REM, un mito per i ragazzi più esperti, i paesaggi e la natura sono mozzafiato e la storia intrigante e utopistica. Insomma ci sono già diversi ingredienti molto attraenti per un film.

Poi il fatto che sia una storia vera dà una luce particolare all’idea che Sean Penn ha avuto dirigendo questo film tratto da un best seller scritto anni prima da un famoso scalatore americano. Quest’ultimo era venuto a conoscenza della storia di questo ragazzo di 23 anni (tenete conto dell’età) che era stato trovato morto in Alaska da due cacciatori che passavano per caso vicino al suo isolatissimo furgone/abitazione, appena due settimane dopo (tenete conto del tempo) la morte stessa. Aveva cercato i genitori, le persone che ne avevano condiviso le avventure, li aveva intervistati e poi, leggendo i diari ritrovati, ne aveva fatto un romanzo di grande successo.

L’antefatto è importante perché dà un senso a una storia che diventa così emblematica di un profondo disagio giovanile, vero, e spiega cosa si può realmente fare per cambiare le cose, anche se a volte, si rischia di pagare con la vita. Voglio anche aggiungere però che, dopo lunghe successive ricerche, si è scoperto che il ragazzo, per nulla sprovveduto o ingenuo, morì per aver ingerito bacche velenose che neppure il manuale di botanica che aveva con sé citava come pericolose. Una serie incredibile di coincidenze negative!

Il film segue inizialmente il percorso di questo ragazzo comune di buona famiglia americana che fa ciò che una tipica famiglia americana (e italiana) gli chiede, solo che, progressivamente, comincia a ribellarsi fino a fare uno scarto.

E allora devia, cambia obiettivo, non ci sta col consumismo, l’ipocrisia, l’autoritarismo, la superficialità, lui legge Tolstoi, tanto per intenderci, i genitori vogliono comprargli un’auto nuova e lui rifiuta, poi regala tutti i suoi risparmi in beneficenza e parte, zaino in spalla. Sembra un ribelle tipico degli anni 60, ma non lo è, non gira con i soldi di papà, né pensa di fare una vacanza, parte per un’alternativa, vuole uscire dal sistema e vivere in Alaska, da solo.

Prima però vuole fare esperienza e prepararsi a dovere, non è certo un velleitario sognatore, né un superficiale antagonista, anzi, pur con allegria e leggerezza il suo è un vero e proprio apprendistato. Lui si prepara.

Così il film lo segue nelle sue peregrinazioni lungo gli Stati Uniti, da nord a sud, e ne segue gli incontri.

Anche questa è una parte molto interessante e poetica del film, chissà se è andata proprio così, comunque lui è un tipo aperto, entusiasta, socievole, intelligente e colto, perciò con le persone che incrocia riesce a costruire dei rapporti veri, di conoscenza e intimità notevole, ovunque lascia il segno e da ciascuno impara moltissimo, in una relazione sempre di parità, perfino con un soldato in pensione, cattolico e tradizionalista, riesce a creare un rapporto magicamente affettuoso.

Non è che sia tutto rose e fiori, solo che lui si ferma solo dove trova consonanza e apertura e dove viene accettato com’è.

Insomma si prepara a dovere… e poi va.

L’idea è quella di trovare la purezza e la felicità nell’incontaminata solitudine del grande Nord.

A me è piaciuto molto vedere questo ragazzo affermare con i fatti la sua idea di felicità, non è un avventurista, impara a cacciare e a conservare il cibo (questo un po’ meno bene per la verità) sa sparare e cucinare, insomma, senza essere proprio un trapper, però se la cava.

La morte poi non è il suo fallimento, non fatevi ingannare, accade per una serie di coincidenze sfortunate, e bastavano due settimane in più per essere ritrovato vivo. Cosa sono due settimane? Un battito di ciglia nella nostra vita, ma per lui un tempo fatale, il che fa anche un po’ incazzare.

D’altronde, anche a casa dai suoi, avrebbe potuto morire nei tanti modi con cui a volte il caso ci distrugge.

Ne esce una gran bella storia, una voglia di natura e libertà, di vita semplice ed essenziale, di rapporti umani veri, senza danaro a corrompere i cuori e senza una carriera per mangiarsi l’anima.

Un antidoto per i ragazzi, anche italiani, a rischio fatuità e consumismo acuto.

E poi questo ragazzo, ormai allo stremo delle forze, ci lascerà, incisa sul legno, una frase, non certo sorprendente per noi analisti transazionali, ma un gran bel messaggio per la felicità. Un insegnamento paradossale imparato non tanto là nel grande e solitario nord, ma nel corso di tutto il viaggio, come a dire che ciò che conta nel cammino non è la meta, ma il camminare.

Non vi dirò cos’è, così, parafrasando una frase del ragazzo rivolta al nonno: “alzate il culo e andate a vedere la vista che c’è da lassù!”.


“L’utopia sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte si allontana di diecipassi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? A questo: serve a camminare.”

Eduardo Galeano


“Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti….
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.”

A. Merini


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