La recensione di Berne Counseling

Un camion azzurro entra in un carcere tedesco, trasporta un pianoforte a coda, bellissimo, nero, in cabina due brutti ceffi dark, rock, freak, insomma due tipacci e una donna anziana, c’è una strana musica quasi araba avvolgente e poi man mano dura e lacerante finchè la donna, con gesto perentorio e severo, non cambia sintonia alla radio, per una più rassicurante sinfonia classica.

Questo è l’inizio, ma poi alla fine lo stesso camion uscirà dal carcere e trasporterà le stesse persone (o quasi).

E’ difficile dire, senza raccontare troppo, cosa accade in questo bellissimo film a una giovane psicopatica, incattivita ed aggressiva, autolesionista e cinica, dal momento in cui la musica diventaqualcosa di più di un passatempo per carcerati.

Una vecchia pianista, gelida e cocciuta, “una che ha il compito nella vita di tenere duro” come dirà di sè, sarà il ponte fra il passato ed il futuro, e la guida per uscire dall’inferno.

Le due donne, l’assassina e l’insegnante di musica, sono agli antipodi, si incontrano ed è subito in scena lo scontro fra due sofferenze diametralmente opposte, una, la Bambina Ribelle, esprime una violenza cieca, “la leggerezza della distruttività”, l’autolesionismo e l’inconcludenza del male.

L’altra, il Genitore Normativo, esprime una durezza distaccata, arcigna, direttiva, rigida, senza speranza, glaciale. E viene messa in scena la lotta fra due modi di sopravvivere, tragici, ma epici, una lotta anche tutta interiore fra l’arroccamento nel Copione e un filo di speranza, tenue, sempre sul punto di spezzarsi, ma poi ostinato e vincente come la voglia di vivere, di capire l’altro, di essere visti, profondamente.

Ma bisogna arrivare a raccontarsi spudoratamente per essere visti veramente.

Questo facciamo anche nei colloqui di psicoterapia e di counseling.

E questo faranno le due donne, alla fine.

Le due solitudini si incontrano, e cominciano il cammino ciascuna con il suo obiettivo, si annusano e si combattono, non sono mai fianco a fianco nemmeno se si siedono vicine, di fronte alla tastiera, lottano per se stesse, a nessuna importa nulla dell’altra. All’inizio.

E’ questa la condizione umana quando la sofferenza ti isola, quando nessuno si avvicina, è questo l’esito psicopatologico dell’odio e della violenza subita senza scampo, senza solidarietà, senza rimedio.

Il condannato alla violenza o alla solitudine finisce per identificarsi esclusivamente con l’orrore del suo danno, ricevuto o procurato. Così Giuda si uccide perchè non crede di avere più nessuna possibilità di redenzione e non può arrivare a dirsi in tempo: “io non sono solo quello, non sono solo un traditore, lo sono stato è vero, ma sono anche altro, guardatemi, aiutatemi a trovare il buono dentro di me”.

Questo invece succede in questo straziante e commovente film.

Questo facciamo anche nei colloqui di psicoterapia e di counseling.

E succederà quando finalmente l’anziana insegnante rivelerà alla ragazza il suo passato, quando saprà scendere da quel piedistallo monumentale su cui si era issata per darsi un contegno, un fine e un senso nella vita e potrà finalmente mostrarsi umana e solidale e vicina nella sofferenza: “anch’io, cosa credi, sono una ….”

Per loro il tempo ci sarà per far emergere dai cuori l’anima buona dimenticata, si sorrideranno alla fine, si verranno incontro: la ribelle potrà finalmente fare un inchino e adattarsi un po’, ma senza perdere nulla della sua libertà, né di se stessa.

La dura aguzzina potrà finalmente lasciarsi andare e farsi due rossi (nel senso del vino) e forse, chissà, cominciare anche ad amare quell’orribile “musica dei negri”. Alla fine il concerto finale sarà straordinario, sono giusto quattro minuti di musica così espressiva da farti sudare di passione e sussultare sulla sedia (a me è successo) e sei anche tu lì con lei ad agitarti, a saltare, a picchiare, a far cantare e gridare finalmente quel pianoforte, il totem nero che rappresenta il buio, il controllo, l’ordine, il manicheismo dei tasti solo bianchi e solo neri, l’armonia falsa e distruttiva delle sbarre del carcere.

Bisogna uscire dalla tastiera per trovare se stessi.

E’ più di una redenzione o di una riabilitazione: è la liberazione, finalmente la libera espressione della propria natura.

E alla fine anche i due ceffi sono molto meglio di quanto si potesse mai sospettare.


Vuoi tornare alla scheda sintetica del film? Clicca qui