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J. E. Williams, Stoner, Fazi Editore, 2012, 332 pagg.

La recensione del Centro Berne

Mi sono accorto che diverse persone stanno leggendo questo libro e a tutte fa strani effetti: è una lettura che non lascia proprio indifferenti e che, al di là del fatto che è scritto in maniera meravigliosa, è quasi un test proiettivo.
Provo ad andare con ordine senza dire troppo per non rovinare una lettura piuttosto appassionante, e darvi la mia personalissima reazione.
Poi se volete dite la vostra potete sempre mandare un vostro breve commento.

Stoner è il nome del protagonista, viene da una famiglia di contadini. Ecco come sono descritti i suoi genitori: “ … scrutò l’orizzonte in direzione della fattoria dov’era nato e dove i suoi avevano trascorso tutta la loro vita. Pensò al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente …. In ultimo sarebbero diventati una parte insignificante di quella terra ingrata a cui si erano consegnati tanto tempo addietro.”
Siamo nel 1928, l’anno prima della grande depressione americana.
Leggere di queste condizioni di vita da cui Stoner nasce mi ha fatto riflettere anche sulla sua esistenza e su tutto quello che in questo libro viene descritto.
Mi sono venuti in mente alcuni famosi personaggi di perdenti, il Giobbe di Joseph Roth, Il commesso viaggiatore di Miller, il “Serious man” di uno degli ultimi film dei fratelli Cohen, l’organizzatore di funerali del bellissimo “Still life”, molti ebrei fra l’altro, segnati da una difficoltà evidente di volgere il proprio destino in una direzione di felicità e di successo (qualsiasi sia il discutibile senso da dare a quest’ultima parola).
Stoner è in sostanza uno di queste figure tragiche, con un copione da perdente nato, come se quella miseria economica da cui è partito fosse anche, inesorabilmente, anche povertà di spirito vitale.
Da un punto di vista psicologico sembra un uomo che la vita travolge continuamente benché la sua sensibilità lo porti a uscire dalle ristrettezze familiari d’origine e “ne faccia” un professore di letteratura inglese. I successi accademici quasi inevitabili lo sorprendono altrettanto come i fallimenti: “Era arrivato a una età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva strumenti per affrontarla. Si trovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini.” Queste pagine, la 207 e la successiva sono veramente stupende.
E ci riguarda tutti, eccome.
La risposta verrà, forse in modo un po’ indiretto, alla fine del libro, e com’è giusto che sia, anche per ciascuno di noi, alla fine della vita.
Stoner sembra proprio così, senza strumenti, come se dalla passività della vita contadina, misera e senza alternative, con ruoli da secoli immodificabili, non potesse liberarsi mai del tutto.
Troppo complicata sembra per lui la nuova condizione di persona che può scegliere, non ce la fa, quasi mai. Si lascia esiliare nella sua stessa casa, si lascia scivolare via tra le mani il matrimonio, la paternità, perfino quell’amore che gli stava ridando la vita: “Il corpo di Katherine era lungo e delicato, soffice e selvaggio. E quando lo toccava imbarazzato, Stoner sentiva che la sua mano prendeva vita su quella carne.”
“Una mano che prende vita sulla carne”, che immagine meravigliosa questa, in cui il corpo prende vita, si riprende, si riattiva, si scalda, a partire da una semplice una carezza!
Eppure …
Eppure a Stoner, pagina dopo pagina, nonostante tutta questa rassegnata inerzia si vuole un gran bene.
O almeno a me è successo così.
John Williams, lo scrittore, accompagna il suo protagonista senza risparmiarci le descrizioni della sua passività e della sua inettitudine, ma il suo sguardo è così affettuoso e delicato da farcelo amare, con la compassione con cui si vede un’anima pura non riuscire a essere felice.
Stoner attraversa la sua esistenza proprio così, con anima pura, è candido e stupito quando viene attaccato ingiustamente, è sorpreso dai comportamenti di sua moglie, che sottovaluta nella loro tragicità, è come attonito difronte a tanta incomprensibile sofferenza, la subisce perché non sa opporsi, anche perché questo, forse, vorrebbe dire aggredire e andare contro.
Il suo essere compiacente non glielo consente. Ma va avanti.
Stoner è un innocente travolto dalla complessità della vita, ma è un uomo buono che non si lascia corrompere né dalla follia, né dalla gelosia, né dall’invidia, né dalla cattiveria del mondo. A suo modo, resiste, conservando dignità e innocenza.
Così finiamo per amarlo esattamente com’è, anche se, in molti frangenti, lo confesso, a me sarebbe piaciuto vederlo reagire, combattere e … prevalere.
Eppure…
Eppure con lui resiste l’insegnamento della letteratura, il lavoro della sua vita, questa è, in fondo, la sua traccia profonda e indelebile che lascerà ai suoi allievi, questo il suo segno per il mondo, e la sua finale, silenziosa vittoria.
Scriverà un libro, niente di eccezionale ovviamente, ma sarà la consolazione, e forse anche molto di più: il segno dell’accettazione pacificata di quello che ha potuto fare nella vita.
Stoner non è certo stato felice, se non in una straordinaria parentesi della sua vita, ma ha amato, ha scritto, ha insegnato, ma credo che John Williams ce lo abbia fatto conoscere intimamente, in tutta la sua limitatezza, proprio per farci amare una persona così, così lontana dagli eroi del nostro secolo, edonisti e presuntuosi, narcisisti e combattivi, vincenti nei fatti e perdenti in dignità.
All’inizio del libro Stoner resta affascinato da questo sonetto di William Shakespeare:
“Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce. Per farti meglio amare chi dovrai lasciare fra breve.”
E questo fa anche John Williams con noi, ci fa vedere l’essenza di questa vita perché il nostro amore accresca. E così facciamo noi che lavoriamo nelle professioni d’aiuto.
Alla fine, a differenza di quello che era capitato ai suoi genitori, quella terra dopo Stoner, non rimane più “com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti.”
Questo è il vero eroismo no?
Riuscire a lasciare, alla fine della vita, la terra migliore di come l’abbiamo trovata.

G.P.