SUL LETTINO DI FREUD
I. D. Yalom, Sul lettino di Freud Neri Pozza Editore, 2015, 493 pagg.
La recensione (recensione collettiva)
Irvin D. Yalom è uno psicoterapeuta americano molto famoso e bravo, per molti di noi i suoi romanzi, pubblicati prima di quest’ultimo “Sul lettino di Freud” e tradotti in tutto il mondo, sono dei capolavori. Li ricordo in ordine di edizione in Italia: “La cura Shopenhauer”, “Le lacrime di Nietzsche” e “Il problema Spinoza”. Tutti da leggere.
Ma Yalom è anche un grande saggista, nel campo della psicoterapia sono infatti usciti “Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo”, un utilissimo e storico manuale e poi “Guarire d’amore”, sostanzialmente delle appassionanti storie di pazienti e “Il dono della terapia”, dove si trovano 85 consigli per il bravo terapeuta. Sono tutti bellissimi e certo non dovrebbero mancare nella biblioteca di uno psicoterapeuta. Presto vedremo perfino un film su di lui.
Tutti noi soci lo apprezzavamo, ma poi Neri Pozza ha pubblicato prima dell’estate, quest’opera che è la seconda che Yalom ha scritto nella sua vita, nel 96, (qualche anno dopo il primo “La cura Schopenhauer” che è del 92) e siamo rimasti un po’ sorpresi.
Così abbiamo pensato di fare un gioco quest’estate, di leggerlo e commentarlo e poi riportare le nostre osservazioni in una specie di recensione collettiva.
Eccola qui sotto: il gioco che può fare un lettore che ci conosce è quello di individuare gli autori di ciascun paragrafo.
1) “Mi è piaciuto molto, l’ho trovato coraggioso, stimolante, tratta temi sui quali mi trovo spesso a riflettere. Certo, è un romanzo, quindi proprio in quanto romanzo, può permettersi di amplificare, estremizzare situazioni che si creano tra terapeuta e paziente.
Ma, proprio grazie all’estremizzazione, diventano situazioni chiare, esplicite, inequivocabili, si parla di “sbagli” (il rapporto con la paziente al di fuori del setting, l’invischiamento economico tra terapeuta e paziente..), decisamente improbabili nella realtà del lavoro di terapia, ma che mettono in luce il umano del terapeuta.
Cosa mi ha colpito di più ?
Il coraggio di Yalom di trattare temi delicati, sensibili che difficilmente si discutono tra colleghi
Cosa ho imparato?
Più che imparato, è una conferma dell’importanza dei confini nella relazione con i pazienti.
L’importanza di verificare sempre cosa serve al paziente nel percorso.
L’importanza di seguire una linea teorica e metodologica chiara, ma arricchita dalla creatività, dall’individualità del terapeuta.
L’importanza di ricordarci che noi terapeuti siamo esseri umani con limiti importanti, quindi di mantenere sempre una linea di umiltà.
Che emozione mi ha lasciato alla fine?
Positiva, desiderio di condividere, stimolo, simpatia, coraggio”
2) “A me sembra che il romanzo di Yalom sia tutto una riflessione sul rapporto tra vita e terapia. I tre personaggi – il primo Seymour Trotter, e poi Marshal ed Ernest- presentano tre modalità di questo rapporto. Il primo confonde terapia e vita e finisce rincorbellito (anche se il rincorbellimento è colpa di una malattia neurologica e non della giovane amante); Marshal sostiene, con obbedienza psicoanaitica, la rigida fedeltà alla tecnica e al setting, e non dà peso alla “autenticità” della relazione – salvo farsi prendere da un abile truffatore nel suo punto debole di uomo, non di terapeuta, l’amore per il denaro e per il successo sociale. Chi si tiene in sella è Ernest (un po’ un alter ego di Yalom stesso, basta leggere le cose che dice ne “Il dono della terapia”) che trova un suo equilibrio tra setting e tecnica da una parte, e sincerità nella relazione dall’altra (anche con troppo coraggio, a mio modo di vedere ). Mi sembra che Yalom si sia tolto qualche sassolino da una scarpa nei confronti degli psicoanalisti nordamericani (vedere come è descritta la lotta di potere nell’associazione psicoanalitica di S.Francisco), e abbia parlato, indirettamente, del proprio modo di fare terapia, che è un po’ emotivo-cognitiva, un po’ esistenziale, con qualche spunto di psicoanalisi. Sottolineando che in questo modo emerge l’umanità del paziente, l’umanità del terapeuta, la realtà a volte conturbante della relazione; ma sempre all’interno di una struttura, che è quella della terapia.
Yalom, poi, sa scrivere bene, sa catturare la condivisione e la curiosità del lettore (anche se il romanzo è anche un po’ troppo ben costruito).”
3) “A parte il giudizio sulla troppa o troppo poca umanità degli analisti protagonisti del libro (in effetti non lo farei leggere a un paziente, uomo o donna che sia. Forse nemmeno a uno psicoanalista ortodosso, non lo capirebbe), e sulla loro goffaggine in alcuni casi, o troppa poca coscienza di sé e dei propri bisogni in altri, credo che il tema centrale del libro sia quanto di noi e della nostra imperfetta umanità possiamo mettere a disposizione del paziente, quanto fa bene a lui e quanto in realtà sia nostro il bisogno.
Il tema centrale, secondo me, è quello dei confini che noi possiamo mettere per proteggere la terapia e proteggerci. Non so per gli altri ma per me sono molto cambiati i termini in cui stare (email, wats’up, fb, sms…), persone sconosciute che richiedono la terapia che mi contattano via sms, email, alcuni anche wats’up, e ogni volta è un confine che un po’ si sposta, che entra nella mia vita, che ne velocizza e essenzializza la comunicazione che invece poi va recuperata nella lentezza invece della seduta, nella riflessività, nel calore che le compete. E’ un allenamento forte e stimolante. Ma anche forse un po’ troppo costante.
Credo che ora, con questi nuovi mezzi, una persona potrebbe sentirsi più accudita e nutrita nel suo bisogno regressivo di forte simbiosi e costanza dell’oggetto. Ma qui entra prepotentemente la domanda che credo sempre dobbiamo porci, e cioè quanta relazione, quanto esserci va bene e quanto invece mantiene la persona nella sua non crescita?
Cosa mi ha colpito di più?
L’imperfezione dei protagonisti (un po’ eccessiva) e la tematica della sincerità.
Cosa ho imparato?
Ancora una volta che siamo una categoria di pazzerelli.
Che emozione mi ha lasciato alla fine?
Buon umore e una buona dose di stimolazioni.”
4) “A me ha molto colpito la parte iniziale che riguarda la storia di Seymour Trotter e della sua paziente perché, tanti anni fa, eravamo ancora in Via Bandello, mi è capitata una esperienza in qualche modo simile. Niente di sessuale, non drizzate le orecchie.
Si trattava di una donna, una persona molto sofferente e deprivata precocemente di cure affettuose.
Lei cominciò presto a sostenere che lo spazio della relazione terapeutica non le bastava, sia riguardo al tempo che ai contenuti. Voleva di più, condivisione e vicinanza prolungate, incontri fuori, più contatto fisico, più vissuto insieme. Non ha mai fatto cenno e io non ho mai sentito o sospettato un desiderio sessuale, ma proprio un bisogno di relazione primaria più stabile e presente nel tempo.
Parlava di sentimenti forti nei miei confronti che non potevano essere confinati nel tempo e nello spazio del setting. Mi sentii molto in difficoltà, comprendendo da una parte il suo bisogno e dall’altra la mia impossibilità/incapacità di rispondervi. Dopo molte letture del transfert e molti tentavi di contenimento dei suoi sentimenti, alla fine in qualche modo mi arresi (non era ancora il tempo di internet e delle email; questa possibilità forse avrebbe potuto aiutare a costruire una costanza d’oggetto tra una seduta e l’altra e dato più spazio alla sua avidità emotiva). E le feci con delicatezza comprendere che lì, con me, non avrebbe potuto trovare quello che cercava.
Poco a poco la allontanai e poco a poco lei si allontanò, con una buona consapevolezza, questo sì, che lei non era in grado di contenere i suoi sentimenti e che avrebbe continuato a soffrire sentendoli frustrati.
Questa paziente mi toccò molto e l’allontanamento mi lasciò un senso di sconfitta, oltre al dispiacere.
E Seymur ha riportato alla luce questa esperienza.
Chissà, oggi forse avrei qualche capacità e qualche strumento in più. Ma mi pare un tema non da poco.
Certo anche qui il controtransfert ha un grande ruolo e le richieste del paziente credo si accordino a ciò che vedono come maggiormente perseguibile. La paziente di Seymour cercava sesso, la mia una madre costante.
Forse le psicoterapie relazionali di oggi, con il focus sull’essere nella relazione, indicano una giusta strada tra gli estremi delle regole e quelli della flessibilità. Che significa dare a ogni paziente ciò di cui ha bisogno?
Ora so di non essere stata abbastanza capace, allora, con la mia paziente bisognosa e regressiva, di “essere con lei” e con la sua mancanza e con il suo dolore, per aiutarla a sentire che tutto questo poteva trovare spazio nella nostra relazione, lì, per come era.
Continuando la lettura mi sono resa conto che il tema introdotto con la vicenda di Seymur è poi il tema di tutta la storia. E ancora una volta, il tema della terapia.
Qual è il bisogno del paziente? E cosa capiamo noi terapeuti, attraverso il velo delle nostre imperfezioni e dei nostri stessi bisogni, di cosa ha bisogno il paziente? E come glielo offriamo (sempre attraverso quel velo)?
Giovedì sono stata all’ Università di Pavia ad ascoltare Fonagy e Bateman che presentavano l’ MBT (Mentalizing Based Treatment), un trattamento che usano con i pazienti borderline.
Fonagy, parlando della necessità di equilibrare cognizione e affettività nel processo, introduceva così gli interventi basati sull’ affettività: “Sicuramente voi non abbracciate i vostri pazienti, ma…..”
(tra l’altro esempi molto concreti dei due tipi di intervento e role play molto efficaci e istruttivi)
Io ho amato molto anche questo libro di Yalom, vi ho ritrovato il suo sguardo quieto, umano, benevolo, acuto e profondo sul mondo. Non ho sentito piccherie.
Penso che Yalom sappia bene (concedetemi questa presunzione) che lotte di potere ci sono in tutte le società, psicoanalitiche o transazionali e cattoliche o buddiste.
Cosa mi ha colpito di più?
La capacità di guardare e raccontare le ombre e le piccolezze dei terapeuti con quello sguardo che descrivevo sopra. Dà umanità al terapeuta, togliendogli quell’aura che può appartenere a questo ruolo.
E che il paziente deve vedere. Ma il terapeuta, che nel suo ruolo “guarisce”, sa che ha lui stesso da essere guarito. Le piccolezze, e le meschinità perfino, con cui si esprimono le ferite umane, appartengono a tutti, a chi sta seduto sulla sedia del paziente e a chi gli siede davanti. E quando il viaggio a due riesce ad avvenire, funziona la terapia. (vedi Ernest)
Ma anche Marshall riesce ad uscire dall’ombra, anche attraverso un incontro.
(e che importa se questo incontro può sembrare poco credibile? Siamo in fondo in un romanzo).
E anche Seymur, insieme alla malattia e ai pasticci, ha la sua bellezza di passione per il suo lavoro.
Insomma, siamo tutti nel mare magnum delle debolezze umane e nuotiamo tutti in cerca di luce e tutti ne troviamo un po’.
Cosa ho imparato?
Direi due cose molto concrete:
– mi sono ribadita fortemente l’ importanza del tempo nel setting: puntualità nell’ inizio e nella fine
– allo stesso ho riconfermato la necessità di ripensare ai miei pazienti e a quello che sta accadendo con loro, al di fuori dei 50 minuti. Di parlarne con un supervisore o un amico/collega, di non dare per scontato nulla contando troppo sulle esperienze e le competenze maturate.
Che emozioni mi ha lasciato? Comprensione, compassione, umiltà.”
5) Lo trovo un libro a due facce. Se lo leggo come un saggio, lo trovo molto stimolante e importante. Una profonda riflessione sul rapporto terapeuta-paziente. Una indagine sulle zone d’ombra del lavoro dello psicoterapeuta, su quanto sia possibile mostrarsi alle persone con cui si lavora, un forte richiamo ai temi etici del nostro lavoro. Sicuramente un saggio da mettere nella bibliografia degli specializzandi in psicoterapia e degli psicoterapeuti di lungo corso perché non bisogna mai dare niente per scontato.
Se lo leggo come un romanzo ne sono sconcertato.
Anche se c’è una happy end, il terapeuta buono vince sullo psicanalista meno buono (ma chi fa queste differenze?) e la psicoterapia risulta migliore della psicoanalisi (ma chi fa queste differenze), non mi ha convinto.
Ne esce un quadro dei terapeuti (psicoanalisti) un po’ allocchi, pettegoli, avidi e con i pantaloni sempre sbottonati. Rischia di passare come una banalizzazione, nonostante il finale, della psicoterapia (psicoanalisi). Una avvocatessa emotivamente instabile diventa, in due mosse, un’abile terapeuta da far terapia a uno psicoanalista e supervisore di lungo corso. Con tutto il rispetto per gli avvocati emotivamente instabili, ma mi sembra troppo. Difficile consigliarlo ai pazienti, soprattutto se donne.
Bisogna però tener conto che il libro che esce ora in Italia, è uscito negli USA nel 1996. Colgo una (feroce) critica alla psicoanalisi. E ci sta.
Dimenticavo, altro merito del libro è il “ de prufundis” per il DSM. Amen
6) Citazione: “E’ interessante che la sceneggiatura della vita di sua madre sia stata simile a quella di sua nonna. Come se ci fosse un retaggio di dolore che, all’interno della famiglia, viene passato da una generazione di donne all’altra, come una patata bollente”. (Pag. 309)
E’ il secondo romanzo di Yalom (1996) e settima sua opera. Ammirevole l’intento di denunciare il clima morale dell’ambiente e della società psicoanalitica della costa occidentale (facilmente estrapolabile ovunque). E’ una sorta di giallo senza morto che tratta di sesso, denaro, avidità, potere, invidia, vendetta, falsificazione e sincerità. Perdonabili le smagliature logiche.
Interessante il personaggio di Ernest (alter ego di Yalom) e il suo progressivo viraggio dall’ortodossia interpretativa all’analisi esistenziale con tutti gli interrogativi che ne conseguono. Mi è piaciuto.
Cosa mi ha colpito di più?
Il coraggio di Yalom nell’affrontare la zona d’ombra degli psicoterapeuti (i suoi colleghi non ne devono essere stati contenti)
Cosa ho imparato?
2. Che nell’analisi esistenziale la sincerità del terapeuta deve essere subordinata all’utilità per il paziente
Che emozione mi ha lasciato alla fine?
3. Gradevole e di ammirazione
In sintesi l’ho trovato un modo interessante di esprimere in maniera indiretta un allarme per una condizione professionale/sociale inaccettabile.
7) “Prima di tutto direi che quel truce Freud in copertina non mi invita affatto alla lettura, e per dirla tutta spero anche che abbia scoraggiato i non psicoterapeuti a comprare il libro. Non perché sia brutto, anzi, in fondo si tratta di un giallo costruito bene, con suspence, colpi di scena, sesso quanto basta, storie intrecciate che si dipanano man mano ecc. tanto da risultare piuttosto avvincente e coinvolgente. Almeno a me è successo di arrabbiarmi, commuovermi, divertirmi e poi alla fine sentirmi, in qualche misura, sollevato.
Il fatto è che questo libro è crudele e spietato con la nostra categoria e gli psicoterapeuti (ma forse potremmo dire, per assolverci noi, che se la prende specificamente con gli americani) di cui denuncia la dabbenaggine, il prurito sessuale, la rigidità, la competitività, il desiderio di potere addirittura. Spesso gli psico-qualcosa vengono sbeffeggiati al cinema, ma raramente ho letto una critica così competente e dall’interno. Di alcuni aspetti non ne conoscevo la portata, come per esempio il fatto che in USA ci fossero centinaia (centinaia!) di processi per abuso sessuale a carico degli psicoanalisti, anche se non è detto che non vi siano, fra questi, anche molti casi di pazienti, diciamo così, mitomani o innamorati delusi. Di altri eventi raccontati immaginavo certo l’esistenza, ma pensavo fossero per lo più delle tentazioni, ma vedersele così descritte in un romanzo mi ha fatto, a tratti, un po’ perdere di vista perfino la storia.
E’ un libro che venderei come si fa con certi test, solo agli addetti ai lavori, che prima devono esibire il certificato di specializzazione. Agli psicoterapeuti lo consiglierei senz’altro anche per diversi aspetti molto interessanti per la professione: per esempio quanto deve essere autentico un terapeuta, e spontaneo, e fin dove si può arrivare con il sostegno di fronte alla malattia? Alcune pagine, su questo, sono toccanti e
bellissime, e per me di grande apprendimento. Non sottovaluterei nemmeno molti esempi di tecnica applicata, con le relative riflessioni personali su come e se intervenire, né il coraggio a sperimentare di uno dei personaggi.
E poi per me Yalom è sempre un esempio di libertà mentale, una persona che ha il coraggio di andare (ovviamente quando serve ed è utile al paziente) anche oltre l’ortodossia, una persona di grande disponibilità umana e generosità, uno capace di assistere una paziente fin nel suo letto di morte. Credo che siano questi aspetti personali ciò che più vorrei emulare e imparare. Delle emozioni che mi ha provocato ho già detto, ma alla fine quello che più mi è rimasto è … perdonate l’ardire … un certo orgoglio di appartenere al Centro Berne e una grande riconoscenza per Yalom.
Insomma mi sembra un libro utilissimo per colleghi, mentre se lo leggessero le persone “fuori dal giro” rischierebbero di essere scoraggiate a iniziare un percorso di terapia, oppure, venendo, finirebbero per immaginare di trovare … chissachè.”