We Empowerment – di Giorgio Piccinino


La potenza dell’essere Noi. Ma davvero!

In italiano non suonerebbe benissimo “empowerment” nella traduzione letterale di sviluppare potere nelle persone. E neanche sviluppare potenza, anche se, per chi ha pratica di Analisi Transazionale, la parola potenza richiama più che la forza o la prestanza la capacità di influenzare gli eventi e di essere in grado di agire con determinazione e autorevolezza.
Ad ogni modo forse è meglio cominciare da altre parole.
Io comincerei dalla parola “lavoro” e dalla chiara distinzione che facevano i romani fra “opus” e “labor”, una precisazione che un tempo usavo nella formazione per distinguere un’attività con relativi margini di autonomia e responsabilità (l’opera, appunto) da un lavoro eminentemente esecutivo e ripetitivo (il labor, la fatica, un lavoro da schiavi).
Inutile dire che “sviluppare potenza” in questi ultimi era allora piuttosto facile, come del resto ancora oggi, per quei lavori umilissimi e degradati in cui migliaia di schiavi africani o cinesi sono assoggettati nelle retrovie dimenticate del mondo occidentale.
Per l’opus credo sia arrivato finalmente il momento per le scienze organizzative di fare un nuovo salto di qualità oltre la politica delle “Risorse Umane”.

Risorse o persone?

Si è fatta molta strada dai tempi del taylorismo, ma poi?
Me lo sono sempre chiesto: quando io lavoro sono una risorsa per qualcuno?
Sono come il petrolio? O l’uranio? O come un terreno coltivabile? O come quella orribile pecora deforme della pubblicità di una multinazionale della consulenza, un mostro con un corpaccione lanosissimo e quattro gambine esili esili, da ipernutrire e poi tosare.
Ma attenzione! Da trattare con molta cura e amorevolezza ché la bestia non si arrabbi e arricci la lana dal nervoso.
In fondo in fondo molti l’hanno sempre interpretata così la gestione delle “risorse umane”.
Non sto qui a descrivere le nuove situazioni economiche e le più recenti sfide del management, ma credo sia ora di cominciare a parlare finalmente di persone, o meglio ancora di esseri umani, altre parole importanti da cui partire, e andare al nocciolo del problema.
Mi riferisco a persone indipendenti, persone che ragionano con la loro testa, con obiettivi di vita propri e una vita affettiva che si sviluppa oltre il lavoro, con figli, genitori, amici.
Persone intere dunque che spesso, in quello che fanno, “ci danno l’anima”.

Dobbiamo smettere nelle organizzazioni di parlare di risorse e anche di “nostre” risorse, e guardare in faccia finalmente la realtà.
Le persone sono … loro.
Le persone non lavorano “per” qualcuno, non l’hanno mai fatto a dire il vero, anche se qualche volta lo lasciano credere. Semplicemente lavorano per sé.
Lavorano “con” qualcuno, assieme a qualcuno, con altri, ma per propri scopi, per proprie motivazioni.
E poi lavorano “in” una certa organizzazione, “con” certe persone, per un certo periodo di tempo, anche piuttosto variabile, se, e per quanto, riescono a conseguire i propri scopi di vita.
E poi, cosa anche piuttosto rilevante, si coinvolgono, si attivano, si sentono responsabili, “ce la mettono tutta” insomma, per come sentono proprio, e adatto a sé, quel lavoro, quell’impresa, quel progetto.
Insomma dovremmo rovesciare il concetto per capirci veramente qualcosa ed entrare nel mondo dei rapporti maturi e adulti, nel mondo dell’inter – indipendenza.
E’ l’organizzazione a essere una risorsa per le persone.
Una risorsa che gli esseri umani utilizzano per sopravvivere e, se è possibile, perfino per realizzare se stessi.

Per mio papà

Gli esseri umani, dicevo, sono un cosmo a se stante, sono un meraviglioso e spesso misterioso universo, hanno una storia e una profondità di eventi interiori inimmaginabile a prima vista, insiemi di emozioni, pensieri, automatismi, reattività implacabili e contraddizioni caotiche, le persone sono complesse e variamente ragionevoli e progettuali e, per quanto riguarda il lavoro, hanno una storia bell’e fatta già da molto prima di andare a lavorare.
Come l’amore anche il lavoro lo impariamo in famiglia, lo impariamo da ciò che sentiamo, da ciò che viviamo, e anche, seppure in modo meno profondo, da ciò che ci dicono in famiglia.
Quando ho scritto il libro “Il piacere di lavorare” ho messo dentro tutto quello che sapevo sul lavoro, tutto quello che avevo imparato in trent’anni di attività prima in azienda, poi come consulente di decine di organizzazioni di tutti i tipi in giro per l’Italia, e infine come psicoterapeuta, ma poi ho scoperto che buona parte di quello che scrivevo e soprattutto la molla che mi aveva portato fino a lì lo dovevo a mio padre e a mia madre.
Per questo, alla fine, ho dedicato proprio a loro il libro.
Da bambini si imparano moltissime cose in modo indelebile, siamo in qualche misura marchiati per sempre anche per quanto riguarda gli atteggiamenti sul lavoro.
Mio padre ha lavorato trentacinque anni “per” la Banca Nazionale del Lavoro, un’istituzione a Padova, occupava diversi piani di quello che allora chiamavamo pomposamente “il grattacielo” nel centro storico, ci lavorò tutta la vita senza cambiare mai. Non era laureato e per quello pensava di essere sottovalutato, si sentiva continuamente umiliato e sorpassato nella carriera da giovani laureati, lui diceva che erano dei raccomandati, che valevano meno di lui.
Probabilmente era vero.
Stava via tutto il giorno, non c’era mai, era ossessionato dai soldi e dalla paura di avere degli ammanchi di cassa, allora erano guai grossi. Era un uomo ligio, onesto, scrupoloso, come doveva esserlo un bancario, allora!
Ma quel lavoro non lo amava.
Se non per una cosa, per la gratitudine delle persone a cui riusciva a far ottenere un prestito o un accordo con la banca, ad una certa età gli avevano dato il compito di procuratore e girava per la campagna veneta con una seicento aziendale e i contadini, i piccoli imprenditori, i negozianti di allora gli davano i soldi così, semplicemente, in mano, perchè li portasse a Padova, in banca. Davvero altri tempi.
Si fidavano ciecamente di lui.
Mia mamma invece lavorava in un negozio di profumi e saponi durante e dopo la guerra, poi ha incontrato mio padre, l’ha sposato e come quasi tutte le donne di allora ha fatto la casalinga e ha lasciato il lavoro di negoziante per quello di moglie e madre.
Quando mia mamma a novant’anni, ormai vedova da molto, e con la memoria un po’ ballerina raccontava di sé, finiva sempre per ricordare quei pochi anni di lavoro prima del matrimonio come i più belli della sua vita, diceva che si sentiva una regina dietro il piccolo bancone a vendere i primi prodotti di igiene e bellezza che a poco a poco riusciva a trovare sul mercato. Diceva che la gente la corteggiava per ottenere gli ultimi prodotti, si sentiva importante, al centro del mondo!
Con che atteggiamento, con che quadro di riferimento, con che Copione lavorativo, io ho cominciato a lavorare? Che lavoro avrò mai desiderato, con che caratteristiche?
Parlo di me perchè, com’è ovvio, è la storia che conosco meglio, ma tutto questo vale per ogni persona: ognuno di noi ha una “sua” personale propensione a un certo tipo di vita lavorativa, il più delle volte inconsciamente e ineluttabilmente realizza il proprio Copione fatto di opinioni e decisioni ben delineate, “scegliendosi un destino” per molti versi coerente con le esperienze vissute in famiglia.
Io, di sicuro, ho imparato che volevo essere laureato, che la banca era una specie di gabbia pericolosa, che la riconoscenza delle persone fornisce sia la motivazione al lavoro che un formidabile riconoscimento, che per la sicurezza si perdono grandi occasioni di sviluppo. E poi ho imparato che la lealtà, l’impegno, l’onestà, la coerenza e la responsabilità sono spesso qualità invisibili nel breve periodo, ma col tempo forniscono dignità e valore straordinario a chi le possiede.
Amareggiato, ma non stanco, andando in pensione, mio padre portò a compimento la sua vita realizzando i suoi sogni: infine divenne capoufficio, i due figli si laurearono, portò a termine l’edificazione di una villetta in periferia con tre piccoli appartamenti, ottenne una pensione dignitosa e sicura ed ebbe davanti ancora diversi anni in cui divenne dirigente sportivo, accompagnatore di viaggi per anziani e nonno.
E’ una storia abbastanza comune, lo so, ma è per spiegare come si imparano certe cose da bambini, non ho imparato tanto da quello che mio padre mi diceva o cercava di insegnarmi, ma da come viveva, e infatti lui voleva a tutti i costi che anch’io entrassi in banca e che, come lui, mi trovassi un posto fisso.
Figuriamoci, con la vita che mi aveva mostrato.
Eppure in azienda ci sono poi dovuto entrare, e ci sono vissuto dieci anni, e ho imparato moltissimo, ho sofferto e imparato moltissimo, con responsabilità e onestà, ho stretto i denti sapendo che avevo da crescere e specializzarmi, e l’ho fatto, se non proprio con passione, con “sforzo” e “perfezionismo” fino a quando non sono riuscito a realizzare ciò che, pian piano, avevo scoperto essere la mia vera e definitiva scelta di lavoro.

Gesti, sguardi e grugniti

Mi sento in dovere, a questo punto, di fare una piccola digressione sulla teoria della comunicazione, un altro piccolo tassello che ritengo importante all’interno di questo discorso riprendendo due degli assiomi della comunicazione, da cui secondo me, se pur arcinoti, fino in fondo non si sono mai tratte le dovute conseguenze: “l’impossibilità di non comunicare” e “quando contenuto e relazione si contraddicono prevale il messaggio non verbale”.

Guardate cosa sono gli sguardi amorosi in questo quadro di Leonardo, cosa imparerà quel bambino da quegli sguardi?
Gli esseri umani hanno comunicato con gesti, sguardi e grugniti per milioni di anni, esprimendo i propri stati d’animo e cercando di capire le intenzioni di altri esseri umani.
Così i bambini piccoli sanno percepire, e trarre le dovute conseguenze comportamentali, dagli atteggiamenti, dal trasparire impercettibile delle emozioni e delle intenzioni, dai toni delle voci, dai gesti dei grandi, senza capire una parola, e si spaventano o si fidano, si innervosiscono o si placano. E così gli animali, sanno percepire le intenzioni bellicose o pacifiche dei propri simili, e anche di altre specie, senza alcun discorso. Pensate che possano perdere questi milioni di anni di competenza per le poche migliaia in cui abbiamo imparato a usare i simboli linguistici?

Noi cerchiamo di convincere con le parole e non ci rendiamo conto che non possiamo controllare lo “spirito e il senso” che inevitabilmente emaniamo, non possiamo non comunicarlo.

Da cosa si capisce se una persona è attendibile, se è amichevole, se è accogliente, se è veramente interessata al nostro benessere o se ci vuol fregare o sfruttare? Se ci crede a quello che dice.
Lo dico perchè se io ho imparato poco da quello che mio padre cercava di insegnarmi a parole quando ero piccolo e invece ho assorbito gran parte di ciò che lui ha vissuto e mi ha mostrato inavvertitamente, pensate quanto e da cosa siamo influenzati “veramente” da adulti.
Non sono le parole che comunicano e nemmeno il fare, è l’essere di chi ci sta davanti.
E le parole che contraddicono quell’essere, se possibile, lo screditano ancora di più.
E dunque come dev’essere un’organizzazione per sviluppare i comportamenti voluti, che contesto, che modelli di funzionamento, che clima, che strumenti, che atteggiamenti deve mantenere? Che Genitore e che Adulto e che Bambino deve essere un responsabile o un dirigente perchè le persone abbiano voglia di lavorare lì con lui, e che rapporti il board deve intrattenere al suo interno e fuori con i propri riporti? Ognuno comunica ciò che è veramente.

Farsi di entusiasmo

Oltre a quello che dicevo più sopra, prevalentemente caratteristiche di personalità, di sicuro ho visto anche come il lavoro occupa e definisce una vita, gli anni migliori della nostra vita, come può dare un valore in famiglia e nella società, ho potuto apprezzare come provvede al sostentamento, alla sicurezza e alla protezione per il futuro, come struttura la vita con ritmi e passaggi epocali, come può rendere importanti e vivi se ci sentiamo utili, unici e determinanti.
E poi ho capito che se un’attività non piace può essere alienante e umiliante, e come, al contrario, può farci sentire realizzati e contenti di noi se ci identifichiamo con essa.
Che, se lavoriamo bene, le persone ci sono grate, e che possiamo evolvere, crescere e imparare in qualsiasi contesto, e dunque mantenere la nostra vitalità anche in funzione di scelte future più personali.
Naturalmente molte di queste cose le ho imparate anche in negativo: dalle umiliazioni di mio padre, da come doveva riverire e ossequiare umilmente “il direttore”, da come si mortificava perchè per anni faceva sempre le stesse cose, e per come spesso lavorava di malavoglia.
Dalla nostalgia e dalla rinuncia di mia madre.
Dunque il lavoro è un fattore di felicità oppure di infelicità, ma non solo mentre lo si fa, anche dopo, anche “per dopo”.
E poi assieme alla vita affettiva risponde a una domanda a cui noi esseri umani non possiamo sfuggire, prima o poi: che ci faccio qui?
Cosa sono stato messo al mondo a fare? E cosa ho lasciato di me?
Da giovani non ci pensiamo, ed è un peccato, perchè la risposta si comincia a costruire da ragazzi, quando senza accorgercene stiamo preparando il nostro futuro: l’opera d’arte o la nullità della nostra vita. Che persona sono e che persona voglio essere quando diventerò grande?
Come vorrò essere ricordato? Non è un pensiero molto comune, ma prima o poi arriva il momento di fare i conti con la nostra esistenza, che ci farò qui?
Capisco che sto andando un po’ sul pesante con le domande, ma cerco di comunicare il nocciolo del problema, cerco di parlare dell’essenza di un essere umano e di cosa lo rende così vitale e felice da aver voglia di “mettercela tutta”. La felicità non è raggiungere uno scopo fuori di sé, è essere contenti e soddisfatti di sé e della propria vita.
Quando mio padre morì fra le braccia di mia madre lei gli sussurrò, e io lo racconto sempre “abbiamo fatto una bella vita, vero ‘Milio”, e non era una domanda.
Ecco io vorrei morire così, felice di aver fatto qualcosa di buono.
Per mio padre quel lavoro, sebbene ingrato e pieno di frustrazioni, era stato fonte di una spettacolare evoluzione sociale, due figli laureati, tre piccoli appartamenti, una pensione regolare con cui mia madre ha vissuto fino a 93 anni, e tutti lo chiamavano dottore quando era vecchio, era contento alla fine.
Perchè racconto questo? Perchè quando parliamo di “sviluppare potenza” nelle persone dobbiamo sempre tener presente che c’è una storia da valorizzare e di cui tener conto, e che ognuno ha, anche senza saperlo, una pulsione evolutiva dentro di sé, una inevitabile energia creativa e trasformativa che ha solo (solo?) bisogno di essere vista e riconosciuta, ciascuno ha dentro di sé, a volte sepolta da rinunce e frustrazioni o da ostilità e ribellioni, l’alacrità e l’entusiasmo che ci ha generati e dato un posto nel mondo.
“En theos”, è il nostro entusiasmo, la nostra energia creativa, “un Dio dentro di noi”, per i greci, con cui tutti nasciamo, forza vitale finalizzata alla sopravvivenza e all’evoluzione della specie, “phisis”, “conatus”, chiamiamola come vogliamo.
Che ci facciamo qui? Ma come? Siamo tutti qui per conservare la specie ed evolverla, siamo messi al mondo, siamo il dono donato alla vita, come diceva quel santo di Raimon Panikkar, una vita che esisteva prima di noi e che esisterà dopo di noi, ecco abbiamo da realizzare quel dono che siamo, far fiorire il germoglio che siamo meglio che possiamo, col lavoro, con l’amore.

Che ci faccio, io, qui?

Lavoro con MIDA.
Così come tutti quelli che hanno scritto e partecipato a questa raccolta di pensieri.
Sapete perchè lo faccio io? Perchè credo che quello che dico e quello che faccio sia utile alle organizzazioni e alle persone che lavorano.
La sofferenza di mio padre mi ha marchiato.
Lo faccio anche per lui, per dare senso alle sue umiliazioni, al suo dolore, alla sua fatica che probabilmente gli hanno accorciato l’esistenza.
Lo faccio per onorare la sua tenacia, la sua incrollabile forza d’animo, la sua voglia di emergere che alla fine gli ha reso felice l’ultima parte della la vita.
Cerco di migliorare il mondo del lavoro lavorando in questo contesto che mi è simile e condivide la mia opera, con coloro che mi danno l’opportunità di veder scritte queste storie.
E così realizzo me stesso e ciò in cui credo, con queste persone di MIDA intorno, perchè senza di loro ciò che io studio, penso e dico, non avrebbe nessun valore.
Solo così mi posso sentire importante, a dare il mio contributo alla vita.
E poi naturalmente ho da pensare alla mia pensione, alla mia casa, ai miei figli.
Mio padre e mia madre mi hanno lasciato un piccolo appartamento, uno a me e uno a mia sorella, e noi lasceremo ai nostri figli un appartamento un po’ più grande, forse, anche noi garantiremo ai nostri figli l’educazione migliore possibile e la più ampia possibilità di scegliere il lavoro che più gli piacerà fare.
E poi voglio vedere i loro occhi brillare, come quelli di mia madre, mentre mi raccontano cosa stanno facendo nella vita, che vendano saponi o strumenti medico sanitari o consulenza.

Senza questo contesto, senza MIDA non sarei nulla!
Il mio operare senza condivisione e appartenenza, senza ascolto, non avrebbe nessun valore.
Senza una comunità ciò che siamo e ciò che facciamo è polvere al vento che nessuno raccoglie, fosse anche polvere d’oro, sarebbe solo valore disperso, vanaglorioso e narciso.
E allora possiamo perfino essere grati a una organizzazione che ci fornisce il luogo, gli strumenti, i clienti e l’occasione di esprimere noi stessi.

Sub specie aeternitatis, come dire: pensare in lungo e in largo

Il nostro è un paese fortemente individualista, ahimè, abbiamo un bassissimo senso civico, si evadono le tasse con orgoglio, facciamo i furbi, ci difendiamo con “conosci qualcuno …? Mi serve un certificato… o un aiutino.”
Se possiamo trarre un vantaggio a scapito di qualcuno certo non ci facciamo scrupoli!
Potenziare il lavoro comune? In queste condizioni?
Non credo proprio che possiamo sopravvivere e riuscire così, serve un enorme salto di qualità, serve coraggio e una visione “sub specie aeternitatis”, come avrebbe detto quell’altro sant’uomo di Spinoza, dobbiamo andare contro questa cultura corrente, individualista e disgregatrice, che ci mette l’uno contro l’altro spesso anche fra colleghi e consanguinei, che ci fa sentire il posto di lavoro un nido di serpenti, dove meno si parla e meglio è.
Ho conosciuto molte aziende così, specchio riflettente di un’umanità deteriorata.
Già perchè gli esseri umani, di natura, sono fra loro affettivi, collaborativi e altruisti, nasciamo così. Socievoli animali di gruppo con un profondissimo senso della giustizia, pensate un po’! Ci “incattiviamo” solo per follia o quando si tratta di vita o di morte.
Ma non è un disastro questa mancanza di collaboratività?
E’ inimmaginabile un esercito così! Una volta i disertori, gli imboscati, i sabotatori li facevano fuori sul posto, e avevano ragione, militarmente la vita di ognuno dipendeva dal comportamento dei compagni.
Chi non stava alle regole del gruppo veniva letteralmente messo fuori.
Non capiamo ancora che la nostra sopravvivenza, come individui e come organizzazioni, come comunità e come specie, dipende dalla collaborazione, dalla coesione, dal sentirci un gruppo, dal fidarci l’uno dell’altro e dal fare responsabile di ognuno.
Così come la nostra sopravvivenza globale dipende da un fare collettivo e organizzativo finalizzato al bene comune.
Quando si cominceranno a fare corsi sulla lealtà?
E se non basta la convinzione servono regole e rigore, e soprattutto coerenza, responsabilità ed esemplarità, dall’alto.
Servono Genitori veri.

Pietro Pomponazzi, chi era costui?

Ho ancora da fare un passo indietro, nel tempo, ma questa volta è un passo indietro di milioni di anni, per raccontare cos’è un essere umano, cosa ha reso noi, in un’evoluzione di milioni di anni, degli esseri umani.
Cerco di farla breve, e chi vuole saperne di più può leggere anche il mio libro “amore limpido” e anche l’altro mio intervento per MIDA sulla “performance felice”.
Abbiamo perso gli istinti e ci sono rimaste delle propensioni, degli orientamenti con cui nasciamo e che mese dopo mese il bambino sviluppa partendo da una energia vitale comune a tutti gli esseri viventi, un obbligo di sopravvivenza, riproduzione e conservazione della vita.
Un neonato ripercorre tutta l’evoluzione della specie in nove mesi e qualche anno e poi gli servono moltissimi anni, rispetto a tutti gli altri esseri viventi per imparare le conoscenze che gli permetteranno di diventare finalmente un essere umano, imparando a realizzare in autonomia quelle propensioni. Propensioni dunque, pulsioni, non obblighi, non istinti, diciamo potenzialità, predisposizioni.
Sopravvivere: mantenersi in vita, conservarsi in buona salute, proteggersi dai pericoli, stare in pace, riprodursi, difendere il proprio ambiente, mantenersi saldi e sicuri per il presente e per il futuro.
Appartenere: sentirsi parte e identificarsi in un gruppo, scambiare affetto, amicizia, amore, fornire e ricevere protezione rifugio, essere riconosciuti, visti, individuati, apprezzati.
Evolvere: crescere e imparare, sviluppare nuove potenzialità, prevedere e organizzare il futuro, trasformarsi e variare, trovare nuove sfide, riuscire
Auto realizzarsi: essere unici, originali, diversi dagli altri, dare un significato alla propria esistenza, rispondere alla domanda “che ci faccio qui”, avere un senso oltre il presente e lasciare una traccia di sé che trascenda il qui e ora.
E l’evoluzione poi se da una parte ci ha tolto la tranquillità degli obblighi istintuali condannandoci a una perenne preoccupazione decisionale, dall’altra ci ha regalato la gioia per ogni momento di realizzazione dei nostri orientamenti.
Il premio per il comportamento sano e giusto per noi è la felicità.
Sempre Spinoza diceva: “il cuore si rallegra quando sente crescere la sua potenza di esistere e di agire” e dunque ecco che la virtù premia se stessa (Aristotele, Nietzsche, Emerson e pure Pietro Pomponazzi, filosofo e professore a Padova dal 1488 al 1496) e l’energia vitale può miracolosamente ravvivarsi in continuazione.
Ecco l’empowerment: aiutare a mantenere o a sviluppare in un essere umano l’energia vitale nel suo agire finalizzato e nel suo esistere virtuoso.
Individuale e gruppale, conservativo e innovativo, dunque pulsionale e naturale, in un equilibrio che solo ognuno per sè può autonomamente dirigere e orientare.
Naturalmente ciascuno di noi ha per sé questa stessa responsabilità, siamo qui per questo, lavoriamo per questo, lavoriamo insieme per esprimere la nostra umanità, e quando ci riusciamo siamo anche felici, non per i capi, non per un’organizzazione, ma per noi. Ciascuno di noi ha da relazionarsi e comunicare per conseguire e realizzare le proprie pulsioni umane, anche attraverso il lavoro.
Le organizzazioni dovrebbero avere solo (solo?) il compito di rendere possibile, almeno in parte, la realizzazione della nostra umanità, rendere possibile un fare coerente con l’essere.
Siamo pronti per un nuovo paradigma?
Per andare oltre la teoria organizzativa della “gestione delle risorse umane” forse potremmo usare parole semplici per descrivere organizzazioni semplici: quello che serve oggi è una “guida di persone” che renda possibile il conseguimento di scopi produttivi “con” la realizzazione degli scopi esistenziali degli esseri umani. Persone che si mettono insieme per dare un senso alla propria vita e fare qualcosa di buono finalizzato al bene comune. Posso parlare così? Fuori dall’aziendalese?

Servono Genitori veri.

Il nostro sembra un paese di Bambini, di Adulti … e di Nonni.
Veri grandi nonni: Napolitano, Hack, Montalcini, Scalfari, Bocca, Veronesi, Zavoli, e chissà, forse neanche loro sono stai dei grandi padri.
I Genitori di questi ultimi anni sono più dei bambini arraffoni e cinici, mesti e trasformisti, avidi e sperperatori, furbi e impuniti, edonisti e consumisti, con due difetti mostruosi per dei genitori: l’egoismo e la mancanza di visione a lungo termine.
Scrive Eugenio Scalfari nel suo ultimo libro “Scuote l’anima mia Eros”:
” Ed è allora, attraverso quelle laceranti fessure dalle quali erompono gli istinti, che cominci a vedere il tuo sé con più acuto sguardo, cogliendo non più soltanto con l’intelletto, ma con una più diretta percezione sentimentale, la molteplicità dell’empito amoroso che si agita nei recessi dell’anima: l’amore di te, l’amore per l’altro, l’amore per gli altri.”
L’amore per gli altri è genitoriale, come l’amore per sé è del Bambino, è la pulsione di sopravvivenza e conservazione della specie, il “Super Io” non è solo dogma e limite, non è solo divieto, anzi è permesso alla crescita, è favorire la crescita, necessariamente con altri, di cui altrettanto dobbiamo proteggere l’esistenza.
“Ama gli altri come te stesso” perchè gli altri sono il tuo te stesso relazionale, perchè ciò che provo per gli altri è il mio vissuto interiore che sente un padre e una madre e un fratello e tutte le relazioni cruciali della vita dentro di sé, sente l’Altro dentro di sé, e se l’Altro è vissuto come ostile, c’è ostilità dentro di me, e se l’Altro è vissuto come un nemico, c’è un nemico dentro di me che mi occupa la mente e la rende guardinga e insicura, ansiosa e aggressiva, in pericolo e sulla difesa, scostante e nervosa.
Che vita è? Al fronte, sempre, anche dentro di noi?
E’ così, noi nasciamo Bambini, diventiamo Adulti, ma che ne è del Genitore?
Quella parte di noi che guarda al futuro, che prepara la vita per altri esseri umani, che la rende possibile e migliore della propria, non è un sogno da bambini, è il sogno di un papà e di una mamma, normali, che si vedono realizzati nella felicità dei propri figli.
E’ così che i figli possono anche sentirsi responsabili di ciò che è stato loro lasciato e non deturparlo, e non svenderlo, e non sperperarlo.
Basta guardare le facciate delle nostre case, “sgorbiate”, disprezzate, insozzate, cos’è questo se non il disprezzo verso ciò che i padri e le madri NON hanno lasciato.
Questi figli e questo futuro se li sono meritati quei padri e quelle madri assenti e disinvolti, a loro volta reciprocamente insignificanti, distratti da un lavoro svolto “per” altri e dunque solo strumentale e vano.
Cos’hanno imparato del lavoro queste nuove generazioni?
Che serve ad arricchirsi, a stare meglio degli altri, a comprarti il suv perchè gli altri vanno in cinquecento e se ti scontri con loro solo tu ti salvi.
Come genitori e come capi, come coloro che organizzano le imprese e le persone che ci lavorano abbiamo un’enorme responsabilità, ma nei nostri ruoli di guida dobbiamo avere ben chiaro che gli esseri umani si attivano e ci credono se, almeno in parte, sentono realizzabili le proprie pulsioni. Lo dobbiamo prevedere. Dobbiamo avere a cuore le persone, il loro futuro, la loro vita affettiva anche oltre il tempo di lavoro.
E poi, detto per inciso, solo così si può anche sopportare una certa parte di “labor” inevitabile in ogni ruolo.
Tutti noi diamo l’anima sul lavoro, ma non se quell’anima è una risorsa sequestrata da qualcuno per fini non nostri, e neppure tanto etici.
Se è per darla a quel qualcuno che rischiamo di perderla, meglio fuggire.

Servono persone e parole vere

Ho ancora un paio di cose da dire, prima di concludere.
Ho parlato di me e dei miei genitori per raccontare qualcosa di vero, di concreto, di autentico, per farmi conoscere un po’, e anche per far sapere da dove arrivano le mie parole. Che valore avrebbero le mie parole, i miei contenuti se prescindessero da me, sarebbero impersonali e freddi, la mia stessa comunicazione risulterebbe fredda e impersonale, io mi sono commosso ed entusiasmato scrivendo questo testo perchè ho parlato di me, e di quello che sono diventato facendo il terapeuta, il consulente, il genitore. Quello che vi dico è ciò che sono, è “parola mia”, perchè solo così posso far vedere e giudicare ciò che dico, per quello che è: le mie parole sono l’esito del mio essere.
Se siamo veri, se ci mostriamo, se siamo espliciti in quello che pensiamo e diciamo, siamo più degni di fiducia, le persone possono ascoltare con apertura.
Se un genitore desidera che un figlio si apra e parli con lui e gli racconti le sue preoccupazioni e le sue difficoltà dovrà aprirsi per primo, essere autentico, trasparente, limpido.
Già autentici, e in azienda, nelle organizzazioni? Certo anche in azienda.
Se vogliamo ottenere apertura e fiducia dobbiamo per primi noi, che abbiamo più responsabilità, credere in quello che facciamo ed essere autentici.
Non ci si pensa mai, ma noi esseri umani, come accennavo all’inizio, abbiamo comunicato senza parole per milioni di anni, la comunicazione simbolica, con le parole intendo, l’abbiamo inventata solo qualche migliaio di anni fa, ma noi comunichiamo con gli atteggiamenti da milioni di anni, non ci facciamo infinocchiare dalle belle parole, dai bei faccini gentili o dall’eleganza formale dei modi, siamo capacissimi, appena incontriamo qualcuno, di “sentire” se è un nemico o un amico, abbiamo dovuto decidere per milioni di anni con uno sguardo se fidarci o meno, ed era anche questione di vita o di morte in certi luoghi dove la selvaggina scarseggiava.
State attenti, basta un attimo per pensare “cosa non mi sta dicendo, cosa nasconde, che vuole da me?” Le nostre vuote parole, i nostri rituali, i nostri passatempi, il nostro chiacchiericcio da corridoio, i nostri occhiali da sole, le nostre divise da ufficio, spesso nascondono solo la nostra scostanza, il nostro distacco, il nostro individualismo.
L’impersonalità delle comunicazioni aziendali, il formalismo, servono solo a nascondere quello che si sente e vuole veramente, e tutti pensano “uomo bianco, non mi avrai, tu parli con lingua biforcuta!”

Consistenza e trascendenza: in pratica

Ce la mettiamo tutta lavorando con qualcuno se dunque troviamo la nostra realizzazione, se sentiamo che partecipiamo a un progetto “nobile”, che valga la pena perchè ci consente di esprimere la nostra unicità, ci rende possibile un sogno di consistenza e trascendenza, o anche soltanto di poterci, alla fine, sentire degni di noi stessi.
Forse nel mondo occidentale, nel percorso evolutivo della terra, siamo avanzati abbastanza da poter finalmente concentrare la nostra attenzione al “meglio” piuttosto che al di “più”, dando anche il meglio del nostro essere … esseri umani.
La forza, la potenza, l’energia collettiva allora si costruiscono così:
– l’opera stessa, prima di tutto, dev’essere virtuosa, l’impresa dev’essere finalizzata al progresso della specie, sia che si tratti di conservazione e funzionamento che di innovazione e produzione, deve valere la pena, insomma, di investirci una parte della vita. Chi lavora ne deve condividere il fine, almeno in qualche misura, e dunque deve poter rispondere con orgoglio e soddisfazione alla domanda: “che ci faccio qui?”
– Bisogna poi prendersi cura delle persone intere, della loro salute, fisica e mentale, aiutare le persone a realizzare se stesse attraverso il lavoro, senza mai dimenticare però l’altra area fondamentale della vita di ognuno, l’affettività e l’amore.
Non si possono sequestrare gli esseri umani impedendogli di fatto l’altra vita: ci si innamora, ci si sposa, nascono bambini, ci si ammala, ci sono amici e parenti, si fa politica e sport, insomma si vive anche fuori. Chi vorrà mai stare in un luogo di lavoro che impedisce tutto questo? Forse per un po’ si riesce a manipolare le menti fino a far credere che valga la pena rinunciare all’amore e alla vita affettiva, ma per quanto?
E quando se ne accorgeranno, che succederà? Perchè molti dirigenti si suicidano?
Perchè se il lavoro è andato male non gli resta più nulla, perchè hanno fatto della loro vita un deserto relazionale che non li può aiutare di fronte alle difficoltà e al fallimento professionale. Si suicidano (o uccidono) esattamente come quegli sventurati e sciagurati innamorati che vengono abbandonati da qualcuno che “era tutto per me”.
– E poi grande attenzione servirà per favorire il benessere relazionale, l’appartenenza fondata sul fatto che chi lavora esprime se stesso insieme ad altri che hanno lo stesso obiettivo. Essere insieme vuol dire condividere fini, sì, ma anche mezzi, e dunque una cultura collaborativa e solidale in tutti i rapporti, anche fra capo collaboratore, s’intende. Il capo è un genitore cui ricorrere nelle difficoltà, che supporta e aiuta, che corregge e insegna, che riconosce e tiene in rotta.
– Per questo oggi la formazione non basta più, e nemmeno uno stile di direzione coerente, illuminato e propulsivo, servono vicinanza individuale e sistemi di supporto non solo finalizzati a migliorare una prestazione, ma appunto a valorizzare il collaboratore come essere umano nelle sue competenze lavorative.
Un aiuto ad essere veramente collaborativo, veramente convinto di quello che fa, veramente capace di essere felice, veramente equilibrato nel perseguire i propri orientamenti esistenziali. Se chiediamo autenticità non basta formare ad utilizzare delle tecniche comunicative, per esempio, bisogna aiutare ad essere veramente comunicativi o a essere dei genitori migliori dei propri padri o a fare pace con le proprie “baruffe interiori”.
“Se lavori con me desidero il tuo bene come persona e ti aiuto a realizzare le tue pulsioni qui, se è possibile o altrove se sarà meglio per te, perchè se sarà meglio per te, alla lunga, sarà meglio anche per me.”
Ecco dunque il mentoring, il counseling, anche il coaching se mantiene le stesse premesse di non rivolgersi esclusivamente alla prestazione e tener conto del benessere della persona intera.
Un aiuto personalizzato a esprimersi al meglio sul lavoro salvaguardando l’equilibrio affettivo personale.
Molte grandi organizzazioni lo stanno facendo, Ikea, Istituto Oncologico Europeo, Johnson & Johnson, Ospedale Sacco, ecc.
Così come anche accade in moltissime piccole aziende dove la salute e l’equilibrio dei dirigenti e dei proprietari, il loro benessere relazionale e affettivo è diventato il primo obiettivo per poter creare anche lì un fare e un essere virtuoso, la vera “conditio sine qua non” per decidere e per gestire efficacemente.
Noi che conosciamo l’Analisi Transazionale lo sappiamo bene come malamente funziona una mente “contaminata” da paure, ansie, fretta, pregiudizi, automatismi, aggressività, presunzione e arroganza.
Servono nuove organizzazioni, forse ora ce le potremmo regalare, che richiedono a chi lavora di essere un essere umano “sano”, sufficientemente maturo ed equilibrato per svolgere un lavoro così delicato e pieno di responsabilità come guidare un’impresa collettiva. Gente che non pretende l’anima dei collaboratori per sé, ma che li aiutano a realizzarla. Come un genitore che sa guardare oltre il presente e sa che quel figlio se sarà felice sarà vitale e collaborativo, affettuoso e riconoscente, ma anche indipendente e innovativo.
Come un genitore che conserva la vita, facendola crescere, non per sé, ma per la comunità.

Allora sì che i figli si sentiranno di aver ereditato un tesoro: le loro esistenze e le loro capacità, create e distillate dalle vite precedenti dei loro padri e delle loro madri.
Un vino buono da portare alla festa della vita per berlo e gustarlo insieme agli altri, ma in piccole dosi, perchè duri di più.


Giorgio Piccinino
Giorgio Piccinino